Il 23 dicembre 2004 prese forma la più imponente cartolarizzazione di immobili pubblici mai realizzata dallo Stato. Due giorni prima di Natale passarono infatti di mano ben 396 edifici, il 15% del patrimonio immobiliare pubblico. L’operazione di vendita e riaffitto, congegnata dalla staffetta Giulio Tremonti-Domenico Siniscalco, garantì alle casse pubbliche ossigeno per una somma pari a circa 3 miliardi. A fronte di quell’incasso, lo Stato si impegnò a pagare per almeno diciotto anni al nuovo proprietario, il Fondo Immobili Pubblici (Fip), un lauto canone di locazione. Che la Corte dei Conti, in un ampio j’accuse del 2006 sulle aree di opacità e le tante “stranezze” dell’operazione, non esitò a definire “significativamente superiore ai normali valori di mercato”.

Vendesi

I magistrati contabili fecero così intendere che gli esborsi per la finanza pubblica avrebbero potuto essere ben maggiori delle entrate. Ebbene il conto finale dell’intervento di sale-and-rent-back fortemente voluto dal “creativo” Tremonti, sarà un bagno di sangue. Perché, come abbiamo potuto appurare grazie alla collaborazione dell’Agenzia del Demanio, già ora lo Stato, al ritmo di poco meno di 300 milioni di euro all’anno, ha pagato in affitti quanto ha incassato. Accollandosi per giunta anche i costi della manutenzione ordinaria e parte di quelli della manutenzione straordinaria, nonostante non sia più proprietario dei beni. Con il risultato che allo scadere dei primi quindici anni di vita del Fip si genererà un buco enorme. Una voragine che potrebbe raggiungere quota 2 miliardi di euro, se, come è previsto nel regolamento del Fip qualora gli immobili non vengano tutti venduti al termine degli ordinari quindici anni, la scadenza del Fondo Immobili Pubblici verrà prolungata di ulteriori tre anni. Evento, questo, facilmente prevedibile, considerando che, come si ricava dai bilanci del gestore del Fondo (Investire Immobiliare Sgr Spa), al 31 dicembre 2013 risultava alienato meno della metà del patrimonio conferito.

Per lo Stato, insomma, la più grande vendita di immobili pubblici ha rappresentato un fallimento. Rispetto al quale il Mef, l’Agenzia del Demanio e gli altri ministeri coinvolti, vista l’impossibilità di rinegoziare gli esorbitanti canoni di affitto, hanno un’unica cartuccia a disposizione: accelerare la ricerca di sedi alternative per gli inquilini degli immobili di proprietà del Fip. Un’opzione, questa, dagli esiti assai incerti, considerando che il mercato immobiliare è in ripresa e gli affitti in risalita.

Il Fip, al contrario, si è rivelato un ottimo affare per una serie di attori. A partire dalle banche – IMI, Barclays Capital, Lehman Brothers e Royal Bank of Scotland – scelte da Siniscalco per strutturare il fondo e collocarne le quote. Come spiega infatti la stessa relazione della Corte dei Conti,  “l’operazione ha consentito alle banche arranger/finanziatrici di realizzare utili molti elevati (99 milioni in meno di sette mesi rispetto ai circa 993 anticipati) attraverso il ricollocamento sul mercato delle quote dalle stesse temporaneamente acquistate dallo Stato con il pagamento di un prezzo iniziale del 25% inferiore al valore stimato del portafoglio e di oltre il 40% al prezzo di collocamento finale presso gli investitori istituzionali”.

Ma il Fip ha fino ad ora garantito ottimi guadagni soprattutto agli azionisti del fondo ed al suo gestore. In 10 anni ai possessori di quote del Fip – i cui nomi una insana legislazione sui fondi vuole coperti da un riserbo assoluto – sono stati distributi 1,47 miliardi di proventi: una media di 147 milioni di euro all’anno, con un picco di 200 milioni nel 2007.

E il gestore, scelto singolarmente dalle banche invece che dal Ministero, – la Investire Immobiliare SGR Spa della potente famiglia Nattino a capo della banca d’affari Finnat e partecipata dalle figlie di Gilberto Benetton – ha incassato nel periodo 2007-2013 commissioni nette pari a circa 22 milioni di euro e realizzato utili per 55,9 milioni di euro.

In tutto ciò lo Stato, dopo essersi scottato con il Fip, ha deciso di mettersi in proprio, dando vita, come noto, ad una società di gestione del risparmio in house (Invimit, nda), che proprio nelle scorse settimane ha ufficializzato l’istituzione di quattro fondi immobiliari. Un’operazione, quella della creazione di Invimit, che potrebbe rivelarsi velleitaria o addirittura dannosa e ridondante, visto che sullo stesso terreno già opera da tempo la Cassa Depositi e Prestiti. In attesa dei primi risultati, quello che è certo è che Invimit, seppur non ancora pienamente operativa, ha già consentito di fare spazio a sei dirigenti e soprattutto a due commis di Stato del calibro di Vincenzo Fortunato e Elisabetta Spitz, cooptati da Saccomanni rispettivamente nel ruolo di presidente e di amministratore delegato.

@albcrepaldi

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