Cyber MondayAggiornamento delle ore 11.50: Governo Renzi ha chiesto e ottenuto lo stralcio del passaggio del dl terrorismo sulle intercettazioni da remoto

La discussione parlamentare della legge di conversione del decreto Legge sull’antiterrorismo ha acceso fuori dal Parlamento un dibattito probabilmente più attento, partecipato e sentito di quello sin qui registrato nelle aule di Montecitorio a proposito delle nuove regole per l’indagine e l’investigazione informatica che il Ministero dell’Interno vorrebbe garantire a forze dell’ordine ed Autorità giudiziaria quando si procede per una vasta gamma di reati che sembrano andare ben al di là di quelli di matrice terroristica ai quali il titolo del provvedimento lascerebbe pensare e che sembrano avere in comune il solo fatto di essere perpetrati attraverso strumenti informatici, il che, nel 2015, in piena era digitale, significherebbe la quasi totalità delle condotte illecite contemplate nel nostro codice penale e nelle nostre leggi speciali.

Il primo a lanciare un allarme pacato – come impone il fair play istituzionale – ma fermo e deciso è stato, l’altro ieri, Antonello Soro, Presidente dell’Autorità Garante per la privacy: “Suscitano seria preoccupazione alcuni emendamenti al decreto-legge antiterrorismo approvati in Commissione, che alterano il necessario equilibrio tra privacy e sicurezza“.

E, in effetti, a scorrere le norme che governo e Parlamento stanno discutendo di introdurre nel nostro ordinamento è difficile non condividere le preoccupazioni del Garante per la privacy.

Le disposizioni che il Parlamento si accinge a trasformare in legge autorizzerebbero, ad esempio, forze dell’ordine e magistrati ad installare “cimici digitali in computer, smartphone e tablet di cittadini sospettati di essere coinvolti in una lunga serie di reati connessi e non connessi con il terrorismo e che in comune avrebbero il solo fatto di essere commessi attraverso strumenti informatici e telematici.

E si tratterebbe – anche se il condizionale è ancora d’obbligo – di “cimici” che anziché limitarsi ad intercettare dati in transito da un dispositivo ad un altro dispositivo come già accade oggi, abiliterebbero gli investigatori ad entrare nei nostri dispositivi e guardarsi attorno, raccogliendo informazioni, dati e documenti salvati nelle nostre memorie digitali.

Ma a preoccupare è anche la volontà di imporre ai grandi gestori delle c.d. autostrade delle informazioni di conservare i dati relativi alle nostre “conversazioni telematiche” per periodi ben più lunghi di quelli attuali che, pure, la Corte di Giustizia dell’Unione europea già considera troppo lunghi e, per questo, incompatibili con il necessario bilanciamento tra tutela della privacy dei cittadini ed esigenze investigative.

Uno scenario nel quale bisogna essere chiari ed evitare ogni ambiguità: l’esigenza – vera e sacrosanta – di dichiarare guerra al terrorismo, specie di matrice internazionale, sembra diventata se non la scusa almeno l’occasione per dotare gli investigatori di poteri straordinari di intrusione nella vita privata digitale dei cittadini.

E’ un approccio che non convince per ragioni di metodo e di merito.

Sotto il primo profilo è grave, sbagliato e democraticamente preoccupante che un dibattito che – a prescindere dalle posizioni ed idee di ciascuno – è straordinariamente importante come quello relativo al bilanciamento tra privacy e sicurezza si ritrovi compresso nei tempi e nelle forme limitatissimi della discussione di una legge di conversione di un decreto legge che, per di più, essendo intitolato “antiterrorismo”, abbatte in modo quasi naturale ogni difesa immunitaria dei diritti fondamentali, incluso quello alla privacy, facendo apparire machiavellicamente giustificato ai più ciò che, probabilmente, in una dimensione diversa non si riterrebbe neppure astrattamente giustificabile.

Sotto il profilo del metodo, poi, non ci si può sottrarre dal rilevare come la ricetta antiterrorismo – sebbene come detto l’ambito di applicazione delle nuove norme appaia ben più ampio – proposta da governo e Parlamento sia quella di una cura destinata a “debilitare” certamente il diritto alla privacy di milioni di cittadini a fronte di un’aspettativa – che bisogna riconoscere essere obiettivamente modesta e limitata – di “debellare” o, almeno, arginare la minaccia terroristica che, purtroppo, è culturale prima ancora che criminale e che, come tale, ben difficilmente potrà essere davvero eliminata a colpi di investigazioni, cimici digitali e conservazioni massicce di altrui dati personali.

Si propone, in sostanza, di barattare la nostra privacy con la modesta speranza di garantirci maggior sicurezza.

Si tratta, naturalmente, di una scelta politica davanti alla quale, non esistono scelte corrette e scelte errate ma esiste l’insopprimibile esigenza di garantire un adeguato bilanciamento di interessi e diritti – egualmente fondamentali – ma contrapposti.

E’ egualmente insostenibile, per un cittadino, la vita in un Paese intrinsecamente insicuro ed in un Paese nel quale, persino nel proprio domicilio – reale o virtuale che sia – corre sistematicamente il rischio di essere spiato, ascoltato, scrutato sino nei momenti più intimi e personali della propria esistenza. E non ci si può limitare a ripetere che chi non ha niente da nascondere non dovrebbe preoccuparsi di essere osservato da forze dell’ordine e autorità giudiziaria specie quando questa rinuncia alla propria privacy può valere a salvare la vita sua e di altri cittadini.

Non ha importanza che io abbia qualcosa da nascondere o meno, vivere con un poliziotto dentro casa – si tratti anche del più serio ed onesto – che mi osserva in ogni mio movimento, condizionerebbe la mia vita in ogni caso e mi imporrebbe di esprimere la mia personalità ed identità personale in modo diverso da come la esprimerei se fossi lasciato solo, libero ed al riparo dal più discreto degli sguardi indiscreti.

Vivere nell’era di internet e dell’informazione digitale con il rischio di avere un poliziotto che – per le ragioni più nobili del mondo – è libero di agirarsi nel mio pc, nel mio tablet o nel mio smartphone – odierni domicili informatici – è un po’ la stessa cosa: condizionerebbe, inesorabilmente, la nostra vita in digitale e la nostra libertà di comunicazione e movimento.

L’auspicio è che governo e Parlamento sappiano resistere ad una tentazione umanamente comprensibile ma politicamente e democraticamente sbagliata e rimandare ogni decisione di così grande rilievo all’esito di un dibattito parlamentare ed extra parlamentare più ampio e più ponderato.

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