Cultura

‘La bisbetica domata’ di Tonio De Nitto, tra macchiette e un’aria da Truman show

Mi stavo abituando a mettere mia moglie sotto un piedistallo. (Woody Allen)
La moglie è spesso il punto debole del marito. (James Joyce)
La famiglia è un nucleo di repressione delle simpatie, di obblighi ad amare, di colpe, di proteste, carezze false e veri schiaffi. (Lidia Ravera)
Quando si trova un coniuge ammazzato, la prima persona inquisita è l’altro coniuge: questo la dice lunga su quel che la gente pensa della famiglia. (George Orwell)

Se la tragedia Romeo e Giulietta, dramma da morti in doppia cifra, Tonio De Nitto e la sua Factory Compagnia Transadriatica erano riusciti a tramutarla, come alchimisti dispensatori di miracoli, in una commedia-festa da sposalizio-sagra paesana, con La bisbetica domata il processo attuato è contrario ed inverso, partendo dalla leggerezza e finendo nel cupo della violenza psicologica tra le quattro mura domestiche del maschio sulla vittima sacrificale-compagna. Terzo passaggio shakespeariano, dopo il Sogno e appunto Romeo e Giulietta, della felice unione tra il regista (attivo anche sul versante del teatro ragazzi con Cenerentola, presentato anche al Fringe di Edimburgo, mentre sono già in cantiere Tre sorelle nel 2016 e Brutto anatroccolo nel ’17), fuoriuscito qualche anno fa dai Cantieri Koreja, e il drammaturgo Francesco Niccolini, anche questo testo è stato reso in rima baciata, ed un ensemble di lavoranti dello spettacolo, un manipolo di eccellenze che fa di questo gruppo il meglio della scena pugliese, sempre fervida e innovativa, sempre curiosa e scoppiettante. Grande cura dei dettagli, scene evocative, costumi acuti e musiche raffinate, ed interpreti provenienti da vari e diverse realtà (Principio Attivo, Nasca, Meridiani Perduti, Ambrò) al servizio di un’idea potente come quella del connubio De Nitto-Niccolini.

Un’ambientazione da macchietta, con marcette e jingle che a più riprese suonano e squillano vibranti ed accoglienti, un’aria da Truman show dove, tra larghi sorrisi e battute pronte e forzatamente recitate didascalicamente ad arte, si incrociano nell’agorà del paese il ricco possidenti e le sue due figlie ed i pretendenti alla mano di entrambe le fanciulle. Una patina stucchevole e mielosa, da favola, da fiaba consunta, con gesti da carillon allegro è il corroborante carburante che pare innescare il meccanismo. Le finestre, le persiane che si aprono e sbattono come in quella vecchia pubblicità del profumo Chanel “Egoiste” ricordando molto anche la madre in Psycho, hanno il respiro e l’apertura colorata della farsa. Insomma tutto è miscelato per farci accomodare in questo salotto, predisporci al morbido, al consolatorio, al buffetto sulla guancia. Una lenta preparazione prima del cambio di registro spiazzante, noir e feroce, che cala come mannaia a tranciare l’allegria.

I colori, svaporiti come Coca sgasata e tenui come pennellate dei Macchiaioli, sono quelli leggermente pastello delle pellicole francesi, toni sgargianti parodistici, abbinamenti coraggiosi, le luci (ipnotici i fondali cangianti), così come il tappeto sonoro composto da un susseguirsi di intermezzi strumentali tesi a sottolineare (scritta da Paolo Coletta, oltre che musicista anche valente attore, soprattutto per Carlo Cerciello), anche in modo marcato e sopra le righe, momenti, attimi, tensioni, parole, chiusure di scene, il tutto agito a costruire un grande fumetto di derivazione hopperiana tra lo appariscente Dick Tracy e il notturno Sin City, tra Chi ha incastrato Roger Rabbit e la surrealtà de I Tenenbaum di Wes Anderson.

Un padre con due figlie deve prima maritare la più anziana, Caterina, prima che questa “scada” nell’essere zitella, e poi la più giovane, Bianca. Purtroppo però tutti vogliono la seconda, carina, remissiva e passiva, mentre nessuno si presenta per chiedere la mano della bisbetica del titolo, acida, ruvida, sempre scontrosa e burbera. Fin qui siamo sul liminare dell’affresco, dell’impianto, sagacemente costruito e finemente architettonico, ma lineare, degno ma ordinario. Fin quando non si presenta un uomo (Ippolito Chiarello-Petruccio, forte, deciso, autoritario, minaccioso, potente come Giancarlo Giannini con Mariangela Melato in “Travolti da un insolito destino”) per la scorbutica, interessato però soltanto alla sua eredità. E’ qui il cambio di rotta, che a dir la verità aveva avuto un rapido accenno nella prima scena con una sposa-bambola spezzata che come automa si muoveva, verso un noir di portata drammatica, a tinte dolorose e pietose. Si capisce che qualcosa non va fin dall’inizio, da quando Petruccio dice a Caterina (l’incisiva Angela De Gaetano nel registro della burla come in quello di vittima), ricordandoci Matteo con Enrico: “Stai serena”.

Proprio lì si intuisce che non c’è più da stare accoccolati sulle proprie sedie, adesso divenute corone di spine da fachiro, ed un refrain, dolce e languido, una nenia cantata a cappella (unica canzone dell’intera piece), Però mi vuole bene del Quartetto Cetra, evocato indifferente dal carnefice come dalla martire, brutale e crudele nella sua delicatezza, come una carezza di pugnale. Comincia la violenza psicologica da stalker, il lavaggio del cervello, i soprusi, la fame da “Primo amore” di Matteo Garrone, la segregazione, la schiavitù, ridotta a cosa, ad animale domestico, senza più dignità.

“La annienterò con eccesso di premure” dice l’orco, o ancora “Io per te sono tutto, ormai sei roba mia, tu sei il mio orto e il mio giardino, io sono il grano e tu l’erbaccia”, di lusinghe prima e schiaffi poi. La fiacca nella libertà, la indebolisce, la sovrasta, la distrugge, la svuota, complice in questo il padre che l’ha “venduta” ad un altro uomo, un nuovo Barbablu. C’è di fondo l’idea di redenzione, di costruzione di una nuova donna-Frankenstein, di pulizia e purificazione, per portarla ad una cieca obbedienza e devozione, “Non ho più un corpo, un cervello, un desiderio” dice l’ex bisbetica adesso ridotta a larva umiliata, scimmia ammaestrata. “Nessuno è di fronte alle donne più arrogante, aggressivo e sdegnoso dell’uomo malsicuro della propria virilità”, diceva Simone de Beauvoir.

Visto al Teatro Paisello di Lecce, il 24 marzo 2015. Altre date a marzo: 27 Gioia del colle (Ba) Teatro Rossini, 28 Cavallino (Le), Teatro Il Ducale, 30 Francavilla Fontana (Br), Teatro Italia; a maggio: dal 13 al 17 Roma, Teatro India.

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Foto di Giacomo Rosato e Domenico Summa