Non ci vogliamo credere. La depressione non è cosa da piloti di Airbus. Una generica sindrome da burnout era stata l’unica traccia del mostro che abitava la mente di Andreas Guenter Lubitz, il pilota ventisettenne che si è chiuso in una cabina di pilotaggio e ha sopportato. Per otto minuti.
Ha sopportato le parole del pilota che si rendeva conto delle intenzioni del suo copilota, e che si facevano via via più concitate. Avrà cercato di convincere Andrea, che come spesso accade probabilmente neppure conosceva prima del volo, ci immaginiamo in un primo momento più sommessamente, tentando di evitare il panico dei passeggeri, poi perdendo la calma e il controllo e alla fine brandendo l’estintore e tentando di abbattere la porta.
Argine estremo a una follia personale che avrebbe anche funzionato se non ci fosse stata di mezzo un’altra paura, collettiva questa volta, quella dell’11 settembre 2001, data dopo la quale le porte degli aerei sono state blindate. Per sicurezza, si deve oggi dire a bassa voce, senza crederci più. Non c’è protezione dalla follia dei propri simili, ogni ingegneria fallisce il suo scopo.
Avrà sopportato, Andrea, le grida crescenti di quelle 150 persone che si rendevano via via conto che sarebbero divenute vittime. Avranno tentato di scagliarsi contro la porta, o saranno rimasti lì atterriti dal terrore contro il sedile, o increduli. Avrà sopportato di riconoscere tra quelle grida alle sue spalle il pianto dei bambini, incolpevoli di qualunque sofferenza altrui, anche della sua personale.
Al momento dell’impatto l’aereo viaggiava ad una velocità di crociera di 800 km/h e un rateo di discesa di poco superiore al metro al secondo, compatibile con una discesa regolare.
Dentro quell’apparente, misteriosa normalità si consumavano otto minuti di terrore la cui ombra si spande su tutti i prossimi futuri passeggeri dell’aria.
Lui, il copilota, con la sua spaventosa sofferenza mai riconosciuta, rimasta inascoltata come quella di molti che camminano sui marciapiedi di qualunque città. Un grumo inestricabile di odio nascosto dentro, diretto verso uno o più esseri umani e verso se stesso è rimasto impassibile a tutto, imperturbabile, rigidamente cristallizzato in una demoniaca determinazione.
Dell’Airbus 320 non è rimasto nulla. Le prime immagini delle montagne francesi su cui si è schiantato da lontano mostrano solo una differenza di colore della terra, una difformità che diviene spaventosa cogliendone la natura innaturale, non casuale.
La disperazione del giovane pilota che diviene carnefice è intrisa di odio, di una misantropia profonda. Qualcosa di simile accade a chi si getta sotto vagoni di metropolitane e treni all’ora di punta in un ultimo grido, di protesta e di orrore. Un messaggio terribile recapitato da un corpo martoriato sui binari o da una macchia scura su una montagna. Il suicidio pubblico diviene un atto di accusa, omicidio, strage. L’irrimediabile, mortifera distanza tra ciò che è e ciò che avrebbe voluto essere un solo essere umano ne ha uccisi 150 in un’assurda contabilità della sofferenza.
I piloti, come altre categorie professionali particolari sono abituati a fronteggiare elevati livelli di stress e responsabilità e al contempo mantenere un grande livello di controllo dell’ambiente. Non è solo un lavoro e non tutti lo possono fare. La sicurezza è affidata all’equilibrio tra condizioni ambientali, conoscenza della macchina ed esperienza personale. Questi uomini hanno problemi speciali come speciale è la loro vita e la loro personalità. La crisi così può sfuggire all’osservazione anche clinica. Può bastare poco a quel punto per far scatenare il demone sepolto nel profondo e il bisogno di rivalsa.
Eppure c’è chi ancora non vuole crederci. C’è chi trova più facile, meno inquietante supporre vapori tossici o improbabili missili aria-aria pur di non credere al male più comune e più pericoloso.