Vivo in questo mondo, anche se cerco il più possibile di tenerlo a distanza. Mi capita, quindi, di passare parte della giornata in rete, sui social. Ho quindi saputo dell’abbandono degli One Direction da parte di Zayn Malik ben prima che la notizia venisse battuta dall’Ansa, come ormai capita sempre più spesso. Me l’ha detto mia figlia di tredici anni, a volerla dire tutta, informata in presa diretta da non so che sua amica ‘directioner’, come si chiamano le fan e i fan della band al momento più amata dai teenager.
Poi ho letto commenti più o meno disperati di genitori di adolescenti su Facebook e Twitter, e a seguire, quando anche il resto del mondo si è accorto della tragedia, quelli ironici e perculanti di tutti gli altri. E tutto questo mi ha fatto pensare. Confesso, prima del suo abbandono degli One Direction, avvenuto in due step, prima abbandono del tour per presunto stress, poi addirittura della band, per necessità di un improbabile ritorno alla normalità, non avevo mai sentito nominare Zayn Malik come nome. Ho ascoltato, più per paternità che per mestiere, gli album della band inventata da Simon Cowell, ma non conoscevo e non conosco i nomi dei suoi membri.
Mia figlia, almeno questo l’adolescenza ce l’ha risparmiata, ama il rap, quindi per lei gli One Direction sono una band che va bene per giocare a Just Dance (il numero mettetelo voi). Questo fatto, che io conosca la band, alcune sue canzoni, ma non chi ne fa parte, tradisce clamorosamente l’anagrafe. Ma non giustifica, credo, ironie o sfottò. Sono stato adolescente, come tutti. E la mia adolescenza è stata quella di chi si trovava in provincia negli anni 80. Quindi non mi sono trovato tanto a dover decidere tra Duran Duran e Spandau Ballet, quanto a trovare qualcuno in cui identificarmi, qualcuno che spiegasse innanzitutto a me stesso e poi anche agli altri questo mio sentirmi diverso dagli altri. Non per orientamento sessuale, anche se all’epoca in tale direzione c’è stato in effetti un bel movimento, parlo di diversità sociale, in parte, e di percezione di inadeguatezza.
Per questo mi sono aggrappato, fate un po’ voi, a gente come Boy George, Claudia dei Propaganda, Annie Lennox e Dave Stewart, Billy Idol, Ian Asbury. Li ascoltavo e mi immaginavo di andare anche io in giro così per Ancona, diverso ma dotato di una mia precisa identità (identità fatta del non avere una identità precisa, di giocare a saltare di qua e di là di un fantomatico e non ben chiaro confine). Poi sono cresciuto e mi sono identificato, questo sì davvero, con realtà più connotate, penso a Chris Cornell e Kurt Cobain, da una parte, e ancor di più a Ian Brown degli Stone Roses.
Fosse possibile identificarsi in qualcuno che non c’è più, e vi giuro che l’ho fatto, ho scelto anche Grant Hart degli Husker Du come mio modello, arrabbiato ma con poesia. Tutto questo per dire che, quando Ian Brown e soci, John Squire in testa, dopo averci illuso per un decennio che il loro non sarebbe stato un passaggio ma una permanenza, decisero di sciogliersi, ho pianto. Tanto quanto ho pianto per la morte di Cobain, anche se in questo caso non era qualcosa di definitivo come la morte. Ho pianto, perché la musica non è esattamente un optional della nostra vita, ma qualcosa di fondante, di fondamentale, per cui a volte ci si riesce a alzare dal letto, o grazie al quale ci si finisce, a letto. Avevo all’epoca quasi trent’anni, non esattamente un bambino. Ma ho pianto, in lutto. Per cui oggi capisco le ragazzine di mezzo mondo.
Chiaramente non giustifico gesti come l’autolesionismo, perché certi eccessi di disperazione, suppongo, andrebbero evitati in generale, ma capisco il dolore di chi di colpo si è visto privato di una parte non accessoria della propria vita. Ho una figlia adolescente, ripeto, e la vedo passare le giornate attaccata allo smartphone, le cuffiette infilate nelle orecchie, la musica, sempre la medesima credo, stando alle nenie che le escono dalla bocca, a fare non tanto da sottofondo quanto da metronomo a una vita ancora in fieri, tutta da vivere e da impostare. Zayn Malik, di cui oggi un po’ tutti conosciamo il nome e i lineamenti carini, gli occhi verdi, non sarà probabilmente un artista destinato a lasciare un segno indelebile nel nostro tempo.
Non credo di dover dire io che non sono i numeri delle vendite a stabilire la levatura artistica di chicchessia, anche se per quel che ho sentito gli One Direction sono sicuramente più portati per la musica di un 90% della nostra scena indie, anche se non hanno gente con la barba lunga e una sigaretta fatta con le Rizla infilata in bocca tra il loro pubblico. Ciò non toglie che la sua dipartita dagli One Direction sia un evento che ha segnato le vite di tante giovani e tanti giovani, esattamente come lo scioglimento degli Stone Roses ha fatto una ventina d’anni fa nel cuore di un non più giovane rockettaro di Ancona ancora alla ricerca di una propria strada. Chi si lascia andare a battutine facili e stupide, probabilmente, non è mai stato giovane, avrebbe quindi forse un motivo altrettanto serio per mettersi a piangere.