Una coreografia, un locale della metro di Roma rifugio per giovani immigrati con storie difficili e ora uno spettacolo di danza che debutta a teatro. La storia di Sinan, Elisa, Sabir e degli altri ragazzi di Termini Underground
Il suo vero nome è Sinan, ma qui tutti lo chiamano Angelo. Ha 39 anni, una figlia di 13 che vive con la mamma nelle Marche e un cappellino da basket messo al contrario, come molti di coloro che gli stanno intorno. Sinan è arrivato in Italia dal Kosovo quando aveva pochi anni e la sua è una di quelle storie che si leggono sulle pagine di cronaca nera: molto prima di chiamarsi Angelo, Sinan è stato venduto a una famiglia di rom siciliani. Aveva 7 anni quando è riuscito a scappare dal campo in cui viveva: un treno fino a Napoli, l’elemosina, e poi la destinazione finale, Roma. Ma guai a pensare che la sua sia una storia triste, al contrario: Sinan ce l’ha fatta, è passato dall’altra parte. Lo leggi nei suoi occhi, quando ti guarda con l’orgoglio di chi ha qualcosa da mostrare.
Sinan è un ballerino, un artista di strada, un insegnante di breakdance. D’inverno si esibisce su via del Corso, con i suoi due gruppi di allievi, d’estate si fa tutta la riviera romagnola, e “sono bei soldi, l’anno scorso abbiamo addirittura dormito tre notti in albergo”. Ma la sua casa, quella in cui tutti lo rispettano e lo ammirano, quella in cui Angelo è il migliore di tutti, è Termini Underground. Binario 23, in fondo in fondo. Devi scendere le scale dell’ultimo sottopassaggio e scovare nel tunnel una porta di ferro. Se non sai bene dov’è, puoi girare pure tre ore prima di trovarla. Come ha fatto Prince la prima volta che è arrivato qui, sette anni fa, quando ancora si chiamava Sabir ed era un ragazzo bengalese approdato in Italia con la sua famiglia in cerca di una vita dignitosa. Termini Underground è la casa di questi ragazzi, ma soprattutto è il tempio della danza. Hip hop, breakdance, salsa: qui si balla di tutto, senza guardare in faccia nessuno. Non ci sono quote di iscrizione, non ci sono rette mensili e, soprattutto, non ci sono etnie. O meglio, ci sono eccome, ma sono talmente mescolate che quando passi quella porta di ferro non ci fai neanche caso. Senti solo la musica, pompata a palla, come le energie di questi ragazzi. E annusi pure il profumo di ragù, perché in questi locali che un tempo erano del dopolavoro ferroviario c’è una cucina, e quando Angela Cocozza, foggiana classe 1967, smette i panni della grande coreografa diventa pure cuoca.
“Ognuno di loro a un certo punto si è trovato di fronte a un bivio e ha dovuto scegliere – ci racconta in un ufficio che sa proprio di vecchia scuola –: una vita borderline o una vita di danza. Hanno scelto la seconda, per fortuna. E non è un caso che questo laboratorio di artisti sia nato dopo un progetto europeo sul teatro in carcere. Ci siamo chiesti: ‘Ma perché non evitiamo proprio che vadano dentro?’”. Angela li incita, li sprona, li corregge e li sostiene se sbagliano o vanno fuori tempo. Dà loro da mangiare, “perchè è da mezzogiorno che provano e sono già le tre e mezza”, li indica a modello per i “nostri” figli. “Perché abbiamo solo da imparare da loro. Qui sono arrivati ragazzi venuti a piedi dall’Afghanistan, persone che hanno sepolto i loro compagni di viaggio. Come fai a dire che questa roba non è figa?”.
E infatti lo è al punto che Termini Underground, dopo un film e un documentario, debutta il 29 aprile al Teatro Brancaccio di Roma. Sul palco Angela porterà 50 artisti, in uno spettacolo di musica, danza, teatro che servirà non solo a lanciare nuovi talenti. “Dobbiamo reperire i fondi per andare avanti, perchè – nonostante l’impegno dell’assessore alle Politiche giovanili Masini e di coloro che in passato ci hanno aiutato – questo posto ci costa 20 mila euro l’anno, da pagare a Grandi Stazioni, e da soli non ci riusciamo”. Angela ride quando le parlano di progetti di integrazione, di seconde generazioni, di mafie nella gestione dei fondi per l’immigrazione: “Sai quante volte mi hanno detto ‘stanne fuori, non è roba per te’. Ma qui a Termini i miei ragazzi vengono solo a ballare”.
Come Corneille, nato in Senegal 23 anni fa e adottato 8 anni fa da una famiglia italiana. La pelle nera come la pece, ha l’impostazione del ballerino classico, e si vede, ma si diverte pure col burlesque sui tacchi. “Non lo faccio per soldi, vengo qui per il piacere di stare insieme. Siamo tutti amici”, spiega mentre corre a Velletri a insegnare danza. O come Elisa, nome italiano e occhi a mandorla, che fa la scuola serale di ragioneria, non sa cucinare cinese e fa coppia fissa con un ballerino russo. O ancora, come Juru, il rapper scappato dalla guerra rwandese quando aveva 2 anni. Angela Cocozza è medaglia d’argento al valore civile, gliel’ha consegnata il presidente Ciampi. Perché quando si è trovata lei, al bivio, ha saputo da che parte andare.
Il Fatto Quotidiano, 27 marzo 2015
@Foto A. Lisci