Quando, ormai tanto tempo fa, era il 2008, l’intervistai per L’Unità, chiesi a Joumana Haddad, che a Lilith aveva dedicato tanti versi delle sue poesie cosa significasse, oggi, essere Lilith e che significava esserlo in un Paese così particolare come il Libano, certamente il più ‘europeo’ dei paesi mediorientali, ma gomito a gomito con l’integralismo religioso.
“Significa, prima di tutto, fare una scelta. E non sto parlando – mi rispose – da un punto di vista femminista, ma più generalmente umano, che riguarda sia gli uomini che le donne. Fare la scelta di assumersi la responsabilità della propria individualità nei confronti dell’industria delle greggi, industria che si chiama ormai ‘mondo moderno’. Fare la scelta di seguire la propria strada, anche se questa strada non convince gli altri, o li disturba. Fare la scelta di fuggire l’omogeneità, anche se il prezzo da pagare è la solitudine. In sintesi, essere Lilith significa rifiutare i limiti che ci sono imposti da altri, sfidare il terrorismo invisibile praticato dal mainstream, e osare trasgredire le censure e i tabù di ogni tipo: religiosi, politici, sociali, culturali”.
Non credo che, se le facessi oggi la medesima domanda, Haddad risponderebbe in modo diverso. Proprio per questo il Sultano del Bahrein, uno di quei piccoli frammenti di medioevo straricco sparsi nella penisola arabica, le ha rifiutato il visto d’ingresso che le avrebbe permesso di recarsi là a leggere le sue poesie. È questa la colpa di Joumana: quella di essere e di comportarsi da essere umano libero, con tutta la dignità e la franchezza d’intenti che ogni vera libertà impone.
Non ha mai fatto sconti a nessuno Haddad: non alle donne (grattando sulla rogna che impedisce loro di vedere quanto tante madri si rendano complici delle discriminazioni contro le donne nell’educazione dei figli maschi), non ai maschi (alla nostra violenza, alla nostra insensibilità stupida e ottusa), non a Israele (chi ha dubbi rilegga la lettera inviata a Amos Oz durante la guerra israelo-libanese, pubblicata dal Corsera), non agli arabi (smascherando il loro integralismo e i loro cliché, la barbarie delle loro teocrazie), non al Libano (sottraendosi al coro che ne fa un angolo di liberalismo e denunciando i diritti delle donne e della madri continuamente violati) e nemmeno alla poesia araba (rinnovandola, spericolata come un’acrobata sul filo, acuta come una fitta) e alla poesia femminile (scrivendo versi che una volta ho avuto la faccia tosta di chiamare “ermafroditi”), né alle femministe (a cui non perdona un bigottismo che impedisce ad alcune di loro di vedere desiderio e piacere come strumenti di liberazione attiva ed efficace).
Non ne ha fatti neanche a se stessa: per esempio decidendo, con un coraggio che rasentava l’incoscienza, di fondare e editare Jasad, la prima rivista in lingua araba dedicata al corpo, cioè a ciò che ogni integralismo ritiene innominabile e sporco, una rivista dove si scriveva di Sade, dell’orgasmo, di sesso estremo e di cultura del corpo come veicolo di piacere e libertà, dove si pubblicavano interviste a Onfray e a Millet. Anche e soprattutto dal punto di vista delle donne.
Una rivista che ha avuto il coraggio di pubblicare un mio saggio sulla più diabolica delle droghe, l’eroina: uno scritto che poi ha dovuto tribolare non poco prima di trovar casa in Italia. Fare una cosa così, in Medio Oriente, significa votarsi alla solitudine, al disprezzo, all’isolamento.
Ma andava fatto, bisognava pure che qualcuno riprendesse sulle sue spalle il carico immenso di ricordare al mondo che la cultura araba non è solo Islam e integralismo: è anche una cultura laica e raffinatissima, fatta di poeti e artisti supremi, che mai avrebbero accettato di essere sottoposti a qualsivoglia censura religiosa. L’ha fatto Joumana, per prima e per ora praticamente da sola. Ne sta pagando ancora il prezzo.
Siamo pronti a essere Charlie, il giorno dopo che qualcuno ha sterminato Charlie: il giorno prima, giravamo disgustati lo sguardo da una libertà troppo libera per essere accettata da culture e nazioni che ne hanno fatto semplicemente una maschera e un feticcio. Se poi ci si mette Dieudonné, allora addio a ogni tollerante e laico orizzonte.
Se è Leo Bassi a dire la sua, magari si prova a farlo saltare in aria anche nella tollerante Europa postmoderna. E anche Castellucci e la sua Societas hanno avuto qualche problema qui da noi e in Francia. Perché il Medioevo non è più un’epoca storica, è uno stato d’animo, un’ideologia strisciante che guadagna terreno ogni giorno che passa. Dovunque. Nutrendosi proprio dell’odio che oppone un Libro a un altro Libro, una fede a un’altra.
È atea, Haddad, atea come un’altra mia cara amica, Taslima Nasrin, poetessa e intellettuale bangla, una donna che ha avuto il fegato di dichiarare pubblicamente d’esserlo diventata proprio dopo aver letto il Corano. Perseguitata anche lei, vittima di tentativi di linciaggio, scacciata dalla sua terra e anche da quell’India dove aveva trovato rifugio. È atea come me, Joumana. E abbiamo diritto a esserlo: non c’è nessuna ragione di tollerare o sottacere l’intolleranza. Neanche in nome di Dio. Qualsiasi Dio. E chiunque sia credente davvero non potrà che essere d’accordo con me.
La blasfemia sarà certamente un peccato, e qualcuno potrà giudicarla di pessimo gusto e assolutamente inopportuna: ma una società in cui un peccato diventa reato è una società medievale. Hashem Shaban, poeta iraniano impiccato al braccio di una gru da un regime intollerante e ierocratico, poco prima di essere ucciso scriveva: “Non ho mai usato un’arma che non fosse la mia penna“. Non è un’arma, una penna, direte voi. Invece sì. Lo dimostra Shaban, lo dimostra Charlie, lo dimostra Taslima, lo dimostra Leo, lo dimostra Joumana.
E le penne sono solitamente più intelligenti delle bombe: se investissimo nella difesa dell’arte, della poesia e della libertà che è loro indispensabile, tanto quanto investiamo in ordigni forse otterremmo risultati migliori. Né staremmo qua a lamentarci degli accidenti collaterali (dalle migliaia di morti civili, alla nascita di Frankstein politici e storici, come Al Quaeda, o l’Is). Per questa ragione, non so voi, ma, per quanto mi riguarda, oggi (ma anche ieri, e domani altrettanto) je suis Joumana (oltre che Hashem, Taslima, Leo e, ovviamente, Charlie).