Vi ricordate Il braccio violento della legge, diretto da William Friedkin, interpretato da Gene Hackman, anno di grazia 1971? Ebbene, il titolo originale era The French Connection, e 44 anni dopo è finalmente arrivato il momento di girare la camera e rivelare al mondo il “gemello” d’Oltreoceano: French Connection nelle sale italiane, The Connection o La French nella denominazione gallica.
Siamo a Marsiglia, quattro anni dopo l’uscita della pietra miliare di Friedkin: il giudice Pierre Michel (Jean Dujardin) viene riassegnato da Metz alla città portuale francese, dove il boss Gaetan Zampa (Gilles Lellouche) fa il buono e il cattivo tempo e spaccia come se non ci fosse un domani. Storia vera, sulla rotta stupefacente Marsiglia-New York, opportunamente riscritta a uso e consumo spettacolare: French Connection ridà gloria al polar, la variante autoctona di poliziesco e noir, ha una fedeltà quasi commovente nella ricostruzione scenografica di Marsiglia Anni 70-80 e, non è necessariamente un difetto, si discosta dal mood letterario di Jean-Claude Izzo per una rilettura glocal di quel milieu criminale, ovvero votata alla distribuzione internazionale del film.
Obiettivo raggiunto, del resto, per la Francia da esportazione il periodo è oltremodo positivo: se il capolavoro noir di Jean-Patrick Manchette Posizione di tiro (The Gunman) è stato appena trasposto al cinema per la regia di Pierre Morel e le prove di Sean Penn, Javier Bardem e la nostra Jasmine Trinca, oggi accanto a questo “romanzo criminale” con il premio Oscar Dujardin (The Artist) arrivano nelle nostre sale via Ventimiglia una commedia con il cervello, La famiglia Bélier, e il kolossal sino-francese L’ultimo lupo, sintomo inequivocabile di una varietà di generi, di un dinamismo produttivo e di un appeal internazionale che il sistema Italia si sogna – noi si esporta solo cinema d’autore, ovvero di pochissimi autori.
Tant’è, il merito di French Connection non è solo metonimico, non è solo industriale: il quasi Carneade Cédric Jimenez, all’opera seconda, dirige con sicurezza e piglio da veterano, ossia con una camera che può essere ferro – nelle sequenze a mano armata, coreografate con pregevole rudezza – o può essere piuma – il contesto familiare/relazionale del giudice e del boss. Non che ci sia proprio da spellarsi le mani, ma il risultato acquisito è il migliore degli ultimi anni nel territorio polar, capace di irridere per drammaturgia, resa stilistica e, sì, prove attoriali Il cecchino di Placido e L’ultima missione di Olivier Marchal. Già, gli attori: nel ruolo di Pierre Michel, il giudice antidroga che collaborava con il nostro Falcone, Dujardin conferma uno spettro interpretativo non comune, è bello, bravo e fascinoso (anche in servizio), Gilles Lellouche, nei panni del signore della droga, gli tiene testa nella tenzone guardie-ladri e gli altri – dalle donne fataliste Céline Sallette e Mélanie Doutey alla faccia da schiaffi Benoît Magimel – non sono da meno.
Mentre la luce di Marsiglia brucia tutto, Jimenez e la compagna sceneggiatrice Audrey Diwan compiono una scelta ugualmente abbacinante nell’economia – e nell’etica – del genere: Pierre Michel è un eroe borghese, ma trascura la famiglia e vuole vincere al banco degli imputati come al tavolo da poker che lo soggiogava; Zampa, lo vediamo nel rapporto con i suoi cari, non è il mostro della cella accanto; in breve, il manicheismo non abita qui. Ed è la zavorra di cui liberarsi per meglio affondare il colpo: il bersaglio di French Connection è la corruzione, che dalla polizia alla politica tutto guasta. Con conseguenze devastanti: chi combatte muore o finisce dentro, invece, chi è corrotto prospera.