Dopo un ventennio di economia canaglia eccoci alle porte di quella surreale. L’andamento dei mercati e quello dell’economia in generale, infatti, non risentono più degli indicatori economici né delle decisioni di politica interna o di politica estera. Mentre il governo britannico considera il tasso d’inflazione a quota zero un elemento positivo per la crescita economica, e per la vittoria elettorale, Mario Draghi stampa euro per portare quello stesso tasso al 2 per cento, considerato il livello minimo per uscire dalla deflazione e far ripartire la ripresa di Eurolandia. L’economia è diventata un’opinione, e forse lo è sempre stata dal momento che il suo funzionamento è condizionato dalle aspettative di mercato e non dalle statistiche relative al presente.

Discorso analogo si può fare per la politica, il dilagare della guerra civile in Medio Oriente, una regione importantissima per l’approvvigionamento energetico del pianeta, è andato di pari passo con la caduta dei prezzi del petrolio. I mercati hanno scelto di prestare attenzione agli squilibri tra domanda ed offerta mondiale invece di preoccuparsi delle conseguenze economiche della destabilizzazione della penisola arabica, da dove proviene gran parte del petrolio e del gas naturale importato dall’Europa. Eppure la guerra civile nello Yemen potrebbe chiudere l’accesso al mar Rosso alle petroliere saudite e sbarrare la via del Mediterraneo a 3,8 milioni di barili di petrolio al giorno. Lo Yemen, bisogna ricordare, controlla Bab el Mandeb, il piccolo stretto all’imbocco del mar Rosso. Se ciò avvenisse non solo l’industria petrolifera, ma quella del commercio internazionale sarebbe colpita da una crisi di approvvigionamento ben più seria della chock petrolifero del 1973-74, che fece precipitare per vent’anni l’economia mondiale lungo la spirale dell’inflazione.

Il processo di assestamento dell’economia mondiale ai parametri della globalizzazione si è concluso con l’abbattimento di tutte le barriere incluse quelle, come i controlli sui movimenti di capitale, che servivano ad evitare l’evasione fiscale, il riciclaggio del denaro sporco ed in parte anche il finanziamento del terrorismo. Questo fenomeno non solo ha prodotto una serie di crisi finanziarie epocali: dal crollo dei mercati asiatici degli anni Novanta fino a quello della Lehman Brothers, dallo scoppio della bolla immobiliare dei subprime fino alla crisi del debito sovrano europea, ma ha de facto creato un meccanismo nuovo, indipendente dalle economie nazionali, che si è sostituito agli indicatori economici ed alla politica. Si tratta della sopravvivenza dei mercati finanziari.

Oggi nessuno sa bene quanto sia il valore del sistema finanziario, si parla di un multiplo dell’economia mondiale che oscilla tra le 7 e le 10 volte il Pil del pianeta. A differenza delle nazioni questo sistema è totalmente integrato perché’ è frutto della globalizzazione. Google o Facebook, che sulla carta valgono quanto il Pil di diversi stati, ne fanno parte, ed infatti il loro valore dipende dalle quotazioni di mercato non da cosa producono o vendono. Ciò che è importante capire è che a differenza dello stato funzionano secondo i principi della global governance, ad esempio possono ubicare i propri domicili fiscali dove più basse sono le tasse. Lo stato non può impedir loro di farlo perché ciò richiederebbe legislazioni che vanno contro i principi della globalizzazione e gli accordi internazionali. Ma non basta, limitare queste libertà farebbe scappare il grande capitale, cosa che nessuno vuole.

Google, Facebook ma anche lo Stato Islamico, che ormai sta diventando un’ideologia transnazionale, sono tutti prodotti della globalizzazione mentre lo stato nazione appartiene ad un periodo storico ormai obsoleto. Anche i mercati finanziari sono il prodotto della globalizzazione, sono telematici, sono sempre aperti e sono totalmente integrati. Un tempo le borse chiudevano e con loro si bloccavano le contrattazioni finanziarie, le società non potevano essere quotate dovunque, la finanza era nazionale non globale. E tutto ciò ne limitava i poteri.

Scopo primario del sistema finanziario moderno non è il profitto ma l’immortalità. In passato tutte le grandi crisi riequilibravano il sistema e le guerre azzeravano il debito. Dalla fine degli anni Ottanta questo non succede più. I mercati hanno capito che sono loro a far girare il mondo, che un crollo sarebbe catastrofico per l’umanità, e che basta scegliere quali indicatori prendere in considerazione per evitare il panico ed un crollo della portata del 1929. E quando le cose vanno male c’è sempre lo stato pronto a salvare il sistema perché questo non può più fallire.

L’essenza dell’economia surreale è proprio questa: la scelta degli indicatori e la creazione di scenari confacenti ai bisogni dei mercati, un comportamento reso possibile dall’asservimento delle istituzioni finanziarie e politiche al nuovo imperatore: piazza affari, ed alla sua corte, la casta imprenditoriale della globalizzazione.

Fino ad oggi questa strategia ha funzionato ma il surrealismo, non dimentichiamolo, è un’illusione e prima o poi si manifesta come tale. La destabilizzazione del Medio Oriente potrebbe farci aprire a tutti gli occhi.

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