L’estrazione dalle rocce non è più conveniente e gli investimenti negli Stati Uniti hanno iniziato a crollare: in estate la produzione potrebbe diminuire di 500mila barili al giorno. Proprio quello che speravano i grandi Paesi produttori, a partire dall'Arabia saudita
Nel braccio di ferro tra il cartello di Paesi produttori Opec e gli Stati Uniti sulle quote mondiali del mercato petrolifero le compagnie a stelle e strisce iniziano a mostrare la corda. Passata la sbornia di retorica sulle meravigliose prospettive economiche aperte dal petrolio da scisti (shale), le sagome della realtà cominciano ad affiorare in una luce crudele. Lo sfruttamento dei giacimenti doveva rappresentare l’avvento di una nuova era di abbondanza energetica, secondo i media e l’amministrazione Obama. Invece è il canto del cigno dell’estrazione di idrocarburi in America, un’attività con una storia gloriosa alle spalle, dipanatasi tra drammi e successi per 200 anni. Ma ormai i costi di produzione di un barile di petrolio negli Usa in dieci anni o poco più sono triplicati nonostante il progresso tecnologico. La frattura idraulica delle rocce (fracking) e la trivellazione orizzontale sono l’ultimo disperato sforzo di raschiare il fondo dei depositi continentali nordamericani da cui si ottengono qualità mediocri a costi insostenibili. Si tratta di operazioni dispendiose il cui bilancio energetico (l’energia ottenuta al netto dell’energia impiegata nell’estrazione e trasporto) è a malapena positivo.
La cruda evidenza di questo inesorabile declino è riflessa nei numeri: il totale del gas da scisti estratto finora ammonta a due anni di fabbisogno dell’economia americana, mentre il petrolio da scisti ammonta a meno di un anno di fabbisogno. E il futuro non è certo radioso: secondo le stime del ministero dell’Energia Usa, le attuali riserve di gas sono equivalenti al consumo interno di 8 anni e quelle di petrolio al consumo di tre anni. L’Opec, e in particolare l’Arabia saudita, recita da mesi queste cifre a memoria (congiuntamente alle preghiere) in attesa che l’insostenibile pesantezza dei costi di produzione negli Usa riequilibri il mercato mondiale a loro favore. Proprio in questi giorni sembra arrivato il punto di svolta. L’Energy Information Administration, (l’Agenzia del governo statunitense che compila informazioni, dati e analisi) ha riportato che ad aprile la produzione totale di petrolio da shale nei grandi bacini di Eagle Ford in Texas e Niobrara nelle Grandi Pianure è prevista in diminuzione di oltre 24mila barili al giorno. Da 15 settimane il numero di piattaforme di trivellazione (oil rig) negli Usa è in caduta libera: la scorsa settimana ha raggiunto quota 1069, rispetto ai 1803 di un anno fa e al picco di 2031 registrato nella tarda estate del 2008 – appena prima della bancarotta di Lehman Brothers. Analogamente le piattaforme di trivellazione per il gas sono scese a 242, il minimo dal 1993 e un buon 80% in meno rispetto al record dell’estate 2008. In estate la produzione americana potrebbe diminuire di 500mila barili al giorno.
In definitiva le compagnie petrolifere americane oberate di debiti non trovano più le risorse finanziarie per sostenere una produzione che ai prezzi attuali risulta in molte zone in perdita. Le grandi società petrolifere come Chevron, Shell ed ExxonMobil hanno tagliato gli investimenti e hanno praticamente abbandonato i progetti per l’estrazione di idrocarburi da shale al di fuori degli Stati Uniti. Nonostante i depositi di petrolio siano stracolmi in Usa (ormai il greggio viene stoccato sulle petroliere) e all’80% in Europa e Giappone. L’effetto di questo traumatico aggiustamento dell’offerta sui prezzi del petrolio non sarà immediato e comunque il processo di normalizzazione dei prezzi verso gli 80 dollari al barile (che rappresenta un livello di equilibrio di lungo periodo) non sarà lineare. Nelle ultime settimane infatti le oscillazioni sono state abbastanza pronunciate.
Come abbiamo imparato da quasi mezzo secolo, il prezzo del petrolio risente dei fattori geopolitici. Il negoziato con l’Iran è arrivato ormai alle battute finali. La decisione strategica di firmare un compromesso è stata presa sia a Washington che a Teheran e adesso si tratta di far ingoiare ai falchi di entrambi gli schieramenti (incluso Israele) il rospo indigesto. Con la fine delle sanzioni l’Iran (che fa parte dell’Opec) potrebbe dare un nuovo impulso alla propria produzione e alla propria economia debilitata, ma non è chiaro quali tempi occorreranno. In primo luogo la rimozione delle sanzioni potrebbe essere graduale e legata ad obiettivi verificabili. In secondo luogo rimettere in sesto i pozzi petroliferi iraniani e le infrastrutture di trasporto è impresa ardua dopo anni di incuria. E poi le convulsioni sui vari fronti di guerra, dall’Iraq alla Libia, dove il petrolio è a tutti gli effetti l’arma più efficace. Di fronte alla prospettiva di mesi poco sereni gli intermediari tengono le pillole di calmanti a portata di mano.