Chi l’avrebbe detto? Da oggi perfino il superbacchettone Impero del Giappone, dove tutto si può fare basta che non si veda (troppo) e soprattutto non scalfisca la forma, ci supera quanto a diritti delle cosiddette “minoranze sessuali“. Il comune di Shibuya, una delle “città” di cui è composto il rizoma metropolitano di Tokyo, ha infatti deciso di riconoscere le unioni gay, equiparandole di fatto ai matrimoni. Non è una notizia da poco: in Giappone i precedenti fanno strada in fretta e se il governo non reagirà imponendo al sindaco di Shibuya di annullare l’ordinanza, cosa dal punto di vista istituzionale abbastanza difficile, se non impossibile, il Giappone potrebbe diventare il primo Paese asiatico a riconoscere non solo le unioni (convivenze) di fatto, ma anche i matrimoni gay.

L’ordinanza approvata a stragrande maggioranza dall’assemblea comunale di Shibuya, infatti, non solo istituisce una sorta di registro delle unioni civili, ma ne sancisce la validità e l’efficacia giuridica “erga omnes” parificandole specificatamente a quella dei matrimoni ed elencando nel dettaglio tutta una serie di situazioni in cui non sarà più possibile compiere discriminazioni. In particolare l’accesso all’edilizia pubblica/popolare, le detrazioni fiscali, ogni tipo di graduatoria ove sono riconosciuti “punti” per il nucleo familiare, il diritto/dovere di informare ed essere informati in caso di ospedalizzazione e/o di gravi malattie. Uno degli aspetti più drammatici che le coppie gay/lesbo – ma anche quelle eterosessuali non sancite da un matrimonio – affrontano quotidianamente, e rappresentato dal recente suicidio dell’anziano partner di un artista omosessuale, ricoverato d’urgenza in un ospedale, al quale i medici hanno vietato di visitare il paziente e di accedere a qualsiasi tipo di informazione nonostante la sua famiglia avesse manifestato il suo consenso scritto, confermando la lunga relazione in atto.

“E’ compito dello stato adeguarsi al cambiamento della società – ha spiegato nel corso di una affollatissima conferenza stampa Toshitake Kuwahara, il “sindaco” di Shibuya, uno dei quartieri più popolari e popolati di Tokyo (oltre 300 mila abitanti, di cui 10 mila stranieri) – e siccome il nostro governo è particolarmente lento nel percepire i cambiamenti, abbiamo deciso di dare una scossa. Le minoranze sessuali sono una realtà, è giusto che che vengano riconosciute e tutelate senza essere più costrette a vivere di nascosto la loro realtà”. Immediata, diremmo quasi all’italiana, la reazione del governo. Il portavoce Suga ha definito la decisione “estremamente grave e probabilmente illegale”, annunciando che il governo studierà la questione per verificarne, innanzitutto, la sua la legittimità formale. Il problema, per il governo e per il partito liberaldemoicratico, il cui segretario generale Tanigaki ha parlato, con toni inusuali in un paese dove i temi etici e morali non scatenano in genere grandi dibattiti, di “attentato alle radici della famiglia e dunque della società”, annunciando una battaglia senza quartiere del suo partito in ogni sede istituzionale per bloccare questo “pericoloso virus” impedendone la propagazione, è che in Giappone per annullare, o anche solo sospendere, l’efficacia di un atto amministrativo, occorre una sentenza della Corte Suprema (che funge anche da Corte Costituzionale), i cui tempi peraltro sono molto lunghi.

E siccome è abbastanza agevole ritenere che la decisione del comune di Shibuya sia socialmente condivisa – il Giappone è un paese dove l’orientamento e l’attività sessuale non ha un “peso” morale, è più legata all’opportunità, al contesto, piuttosto che al valore etico e al concetto di “peccato”, completamente estraneo – sarà difficile che la Corte, con tutto quello che ha da fare in questo periodo, trovi il tempo, a breve, di occuparsi di questa vicenda.

Quello che colpisce – e che dimostra quanto il sindaco, che ha più volte ribadito di non essere gay ma di provare profondo rispetto e solidarietà per tutte quelle che ha chiamato le “minoranze sessuali”, abbia ritenuto incidere profondamente nell’opinione pubblica – sono le “sanzioni” previste dall’ordinanza in questione. La coppia gay “certificata” che si trovasse di fronte ad una qualsiasi discriminazione (le più comuni sono quelle di vedersi rifiutati dalle agenzie immobiliari) potrà immediatamente contattare un apposito ufficio del comune denunciando la ditta, l’ente, l’istituzione e, se vorrà, il contesto. Il comune si riserverà poi il diritto di utilizzare queste informazioni sia rendendole pubbliche, sia istituendo una sorta di “bacheca” con la lista dei “cattivi”.

In un paese dove farsi “notare”, nel bene o nel male, è di per se negativo, questo approccio rischia di diventare estremamente efficace nel reprimere ogni forma di discriminazione e nel consentire alle “minoranze sessuali” di vivere apertamente le loro realtà. Che un certo tipo di sensibilità stia cambiando, in Giappone, è confermato anche da una recente iniziativa del Ministero del Lavoro, che ha allestito una speciale “task force” contro la perdurante discriminazione contro le donne che restano incinta o semplicemente si sposano. E’ noto infatti che nonostante la legge oramai da molti anni si sia adeguata agli standard internazionali e proibisca ogni forma di discriminazione, di fatto oltre il 50% delle donne che restano incinta (la percentuale arriva all’80% nel settore privato) lascia – volontariamente – il posto di lavoro. Ovviamente a seguito di pressioni dirette da parte dei diretti superiori. Il mese scorso il Ministero del Lavoro ha lanciato una campagna nazionale contro questa “tradizione”, invitandole le donne lavoratrici ad usufruire delle garanzie e tutele previste dalla legge e a denunicare ogni indebita pressione da parte dell’azienda. Qualcosa, sia pure lentamente, si muove.

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