Pensò di raggiungerla, fermarla, parlarle, e chiederle di mangiare ancora assieme, come lei aveva chiesto a lui, molti giorni prima. Mangiare, sì, mangiare guardandosi, mangiare peccando, mangiare come esseri vivi. Si dimenticò della pioggia, del cielo violento, dell’ombra nata dalla pietra verticale, del freddo che lo tagliava. Il cappotto della donna ondeggiava sopra il cemento lucido, colmo di acqua, i piedi suoi pestavano le pozzanghere facendo esplodere le abitazioni riflesse. Fece uno scatto per raggiungerla. Immediatamente rallentò. La donna, terminata la via, si era fermata davanti alla porta di un grattacielo, identico alle altre centinaia di edifi ci popolari. La vide entrare e sparire. Alzò gli occhi. Un cartello a lato del marciapiede segnalava “Zona Abitativa Popolare Femminile”. Lì non poteva andare. Erano le regole. Internati e internate la notte dovevano rimanere separati. Era il momento degli errori, la notte.
Leggendo Metropoli, ultimo romanzo pubblicato da Massimiliano Santarossa (edito da Baldini & Castoldi), ho più volte ripensato al capitolo Perché scrivo inserito nel saggio Nel ventre della balena di George Orwell. L’indimenticabile autore inglese afferma che è impossibile valutare pienamente le motivazioni di uno scrittore senza conoscere qualcosa della sua prima formazione e, soprattutto, che al di là di implicite aspirazioni estetiche, un vero narratore deve cercare, con le proprie parole, di trasmettere un messaggio “politico” se non vuole che il suo lavoro si fermi a una mera rappresentazione frivola, di evasione, del proprio tempo. In questo romanzo di Santarossa tutta la conoscenza diretta di una realtà, quella del Nordest industrializzato e dello sfruttamento dell’uomo, insieme al suo messaggio di denuncia nei confronti di una società capitalistica sempre più spietata, vengono fuori in modo sorprendente. Nessuna parola è lasciata al caso. Il risultato è la realizzazione di uno dei migliori romanzi italiani che mi sia capitato di leggere negli ultimi anni.
Mi sono già occupato di Massimiliano Santarossa, dei suoi ultimi lavori, Viaggio nella notte e Il male, entrambi libri estremi e lucidi, ma con Metropoli lo scrittore pordenonese amplifica il suo feroce monito in modo ancora più originale. In Metropoli ci sono rimandi alle ambientazioni inquinate e industriali dello Yorkshire di David Peace, un fatalismo brutale alla Camus o alla Houellebecq, ritmi e musiche di catena di montaggio alla Nanni Balestrini e alla Ottiero Ottieri, oltre a una dimensione futuristica, allucinata e cupissima, come se Isaac Asimov avesse scritto i suoi racconti dopo un’esperienza in un’acciaieria sovietica. Però, e credo sia giusto sottolinearlo, nonostante siano rintracciabili diversi “cattivi maestri” (e non è detto che siano tra quelli citati sopra), ormai la già matura scrittura di Santarossa ha raggiunto una sua totale indipendenza, ogni riga è identificabile con lo stile lessicale e sintattico dell’autore. Un nuovo atto di lodevole resistenza letteraria.
Venne attratto dalla parola “Piacere”: innaturale, antica, impensabile a Metropoli. Nel passato tutti gli individui, a prescindere dalla condizione economica e sociale in cui vivevano, erano dediti a cercare, trovare, procurare piacere, soprattutto a se stessi, e in rari casi a chi consideravano degno di condivisione. Il lavoro, la famiglia, l’istruzione, la cultura, i rapporti interpersonali, le passioni di qualsiasi genere, erano solo maschere, finzioni, sotto le quali si celava la strenua volontà, ossessiva, spesso incontrollabile, di ottenere godimento e in esso qualche istante, prezioso, di felicità. Gli individui fingevano, in sostanza, vite normali, e le conducevano fino al termine dei propri giorni tra fatiche e patimenti, solo per assaporare quei brevi attimi, intimi, nascosti, inconfessabili di piacere intenso, il più delle volte sessuale o di dominio. Sesso e potere, le due grandi direttrici su cui la società passata si basava. Per ottenere ciò, donne e uomini, a miliardi, mettevano in atto complesse strategie, spacciandole per vite umane.
Metropoli racconta le vicissitudini di un uomo che vive in un futuro prossimo, non molto diverso da molti attuali inferni che spesso non vogliamo vedere, un luogo confinato dentro vastissime mura, innalzate per proteggersi dal nulla esterno, un sistema chiamato Metropoli. Attraverso gli occhi del protagonista, vivremo la quotidianità delle viscere di un’enorme città-stato, popolata da milioni di persone schiacciate dal cielo basso e piovoso su una terra consumata e annerita dominata da leggi che regolano ogni istante, ora, giorno dell’esistenza. Un cammino alla scoperta di nuove forme di lavoro, di nuovi metodi di organizzazione sociale e di infinite schiavitù, tutto in nome e per la salvezza di Metropoli, la città che costruisce una “speranza metallica” dove tutto è possibile e nessuna regola è scritta, una città divenuta essa stessa un nuovo Dio, ultimo baluardo di asfalto, cemento e metallo di un mondo apocalittico.
Gli occhi calarono dal grigio immenso e vuoto e si poggiarono sulla spianata di fango. L’uomo sapeva di aver visto per l’ultima volta il bosco, quella parte di cielo e il silenzio di Dio. La lingua di terra stava lì, da millenni, esposta alle intemperie, sospesa nel vuoto. Niente era riuscito a eroderla, né il vento colmo di neve che scendeva dalle montagne a nord né la pioggia di cenere che precipitava dalle nubi. La valle era immersa nell’oblio. Sopra quella regione, oltre le basse colline, dietro i tronchi inceneriti, all’interno delle grotte, non si udiva alcuna voce, non si alzava alcun respiro, non c’era niente di vivo in quell’innaturale, primitivo, deserto di pietra battuto dalla pioggia. Se fossero ancora esistite le regole del tempo, quello sarebbe stato l’Anno Solare o, come azzardavano nel passato i folli, l’Anno del Signore Duemilatrentacinque. L’uomo invece sapeva perfettamente che quello era un qualsiasi giorno dell’anno Zeronove dal Crollo Produttivo. Nulla dell’organizzazione sociale precedente era rimasto tale, né gli stati, né le industrie, né le strutture politiche, né gli eserciti e tanto meno le geografie. Più la povertà divorava i corpi umani, più le regole implodevano, lasciando sul fango ammassi di cadaveri a testimoniare la venuta del nuovo ordine: la fine. Alla scomparsa della Storia precedente una Storia inedita aveva inaugurato l’alba dell’umanità sopravvissuta. Racconti, voci, ricordi, ciò che era, ciò che sarebbe accaduto, le parole non determinavano più niente della vita umana. Tutto era stato azzerato. Tutto, quindi, era possibile.