Qualcuno salvi il soldato D’Alema. Non dai magistrati di Napoli, che neppure lo stanno indagando, né dallo “sputtanamento” mediatico (ipse dixit) delle intercettazioni nelle quali i protagonisti delle vicende di corruzione ischitana spendono il suo nome in modo poco lusinghiero. Ormai l’ordinanza di custodia cautelare è di pubblico dominio, e l’attenzione della stampa va già scemando.
No, qualcuno lo salvi da se stesso.
Perché se la reazione al presunto attentato alla sua onorabilità è solo una mitragliata di querele a giornali e giornalisti e di appelli per una stretta sulla divulgazione dei contenuti delle intercettazioni, potrebbe sorgere il sospetto che il soldato D’Alema non abbia ben compreso quello che è accaduto intorno a lui. Cercherò di dare un contributo in questo senso, confidando nella sua proverbiale umiltà e cercando di schivare le sue querele, nella consapevolezza che la salvezza – sua e di questo paese – forse può nascere solo da una migliore comprensione e di quello che è stata ed è diventata la corruzione in Italia negli ultimi decenni.
Il sistema politico della cosiddetta “prima Repubblica” era, specie nella sua fase crepuscolare, massimamente corrotto. Pochi, duraturi e ben identificabili centri di potere incassavano un dazio tutto sommato modesto e in cambio garantivano l’accesso esclusivo a ben rodati meccanismi di saccheggio di immani quantità di capitali pubblici e beni comuni a una schiera di italici “imprenditori” – continuiamo a chiamarli così per semplicità, nonostante la vocazione predatoria e l’inclinazione alla ricerca di rendite parassitarie avessero col tempo cancellato in loro qualsiasi reale vocazione innovativa. I vertici dei principali partiti e alcuni boss locali – ai diversi livelli di governo, a seconda della scala di grandezza degli affari da trattare – erano gli interlocutori obbligati cui rivolgersi per ottenere appalti, concessioni, licenze, sussidi, protezione e prebende di ogni forma e ampiezza. Poche ma significative le variazioni sul tema: in molte aree del Meridione, ad esempio, a regolare il traffico di tangenti e appalti c’erano anche le organizzazioni mafiose. Mentre le grandi cooperative rosse erano di norma escluse dalla legge ferrea della tangente, dato che il legame organico col partito di riferimento consentiva loro di ricambiare mediante contropartite indirette, differite e formalmente lecite, la protezione in virtù della quale ottenevano la loro fetta di appalti.
Sappiamo come è andata a finire, e sappiamo che le inchieste di “mani pulite” hanno regalato soltanto l’illusione di uno sradicamento della corruzione sistemica. Che invece, come ogni malapianta, nel ventennio berlusconiano è rifiorita più rigogliosa di prima, grazie certo al fertilizzante delle leggi “ad personam” e “ad aziendam”, ma anche a un duttile adattamento alle mutate condizioni ambientali. Tutte le inchieste giudiziarie degli ultimi anni – quella ischitana non fa eccezione – avvalorano la medesima diagnosi. La realtà della corruzione è divenuta col tempo più frastagliata e policentrica, complici la moltiplicazione e l’intreccio tra i centri di potere pubblico ed economico, mentre le contaminazioni pubblico-privato si sono estese in forme sotterranee o legalizzate – dalla proliferazione dei conflitti di interessi e delle società partecipate, all’impiego estensivo di “contraenti generali” e “concessionari unici” sciolti da controlli. I protagonisti si muovono alla ricerca di punti di riferimento, in un contesto più articolato di quello emerso con “mani pulite”: senza più i vertici dei partiti a fare da cabina di regia, oggi la partita della corruzione si gioca su più tavoli diversi, con l’obiettivo primario di entrare, o nel migliore dei casi di tessere quella ragnatela di relazioni che lega i molti aspiranti beneficiari della spartizione. A risultare vincente non è più la pericolosa strategia del “do ut des” tra appalto e tangente, ma la capacità avvolgente di introdursi negli estesi circuiti di compensazioni incrociate e ritardate, dove la valenza penale della corruzione si diluisce in maneggi che investono società erogatrici di consulenze fittizie, congiunti o prestanome a libro paga, faccendieri assoldati, pacchetti di voti e tessere procacciati, finanziamenti a fondazioni politiche, e chi più ne ha più ne metta.
Proprio la riproduzione su scala allargata di questi “ermafroditi” della politica privatizzata – le fondazioni serventi la causa personale di uno o più esponenti politici – dimostra che l’incrocio pericoloso tra interessi privati a caccia di prebende e classe politica ha assunto dinamiche incontrollate. Nessun obbligo effettivo di pubblicità e di rendicontazione dei finanziamenti rastrellati, massima libertà gestionale nel loro impiego: forse questa è la ragione per cui, nonostante la crisi della partecipazione e la disaffezione verso la politica, i flussi di risorse private alle fondazioni politiche non conoscono battute d’arresto, anzi, e spesso la munificenza dei privati assume valenza bipartisan. Si prenda il racconto dell’ex amministratore dell’Ama di Roma: “È un modo di fare che si esercita già da anni… come tutti gli imprenditori romani. Pagano sia destra che sinistra. È una questione di relazioni”. Eccolo il sacro Graal della corruzione: l’ingresso in un sistema di relazioni, di potere o di influenza, o anche solo di conoscenza e di fiducia. Le chiavi di accesso alle reti della corruzione sistemica.
Per un’impresa o una cooperativa che fanno affari con gli enti pubblici qualche decina di migliaia di euro erogate a una fondazione politica, o magari l’acquisto fatturato di un bel pacco di libri del leader di turno, possono rappresentare un piccolo investimento in virtù del quale, per fare un esempio, sarà più facile agganciare il sindaco di un centro minore, il quale riuscirà per questa via ad ottenere l’avallo pubblico del “pezzo grosso” alla sua campagna elettorale, e magari diventerà così più malleabile e disponibile ad entrare anche in altri tipi di affari.
Chiunque abbia a cuore i destini del soldato D’Alema dovrebbe ricordargli che nel suo caso non è in gioco alcuna responsabilità penale, ma la responsabilità politica di chi rischia di entrare – magari “a sua insaputa” – entro simili circuiti di scambio ad alto tasso di opacità ed elevato rischio-corruzione. Invece di minacciare querele, potrebbe difendersi – come gli va suggerendo chi ha a cuore la sua reputazione – rendendo pubblici i nomi dei finanziatori della fondazione che presiede, e magari anche di imprese e cooperative che hanno fatto ordinativi consistenti del suo – si dice – eccellente vino di famiglia.