Il Maestro e Noi, che abbiamo più o meno letto, e realmente capito, i suoi ponderosi libri. Il più grande intellettuale italiano vivente fronteggiato da un’eletta platea di studenti di provincia. Il confronto si tenne a suggello di un’accesa edizione del Premio “internazionale” sebbene abruzzese “Città di Penne”.
Umberto Eco fu accolto al pari di un capo di Stato, o di una rockstar. Jovanotti non poté fargli gimme five né cimentarsi in una brevissima apologia delle idee danzanti nel pensiero Echiano o di chiunque altro, perché non c’era Twitter. Tant’è che non esisteva praticamente nemmeno Matteo Renzi. Quando l’Umberto si grattò per la prima volta la sua inconfondibile barba anticogreciata, il gran bel pubblico andò in delirio. Immaginatevi cosa poté succedere quando parlò per la prima volta: “Perché faccio il professore? Perché assieme a una “libido docendi”, convive una “libido discendi”. Elementare, people”. La mia coetanea accompagnatrice, un’acclamata groupie di letterati over 60, cercò subito di cogliere la libido al balzo. Una vetusta romanziera locale edita da Edizioni Previo Sganciamento Di Tutti I Risparmi Di Una Vita – che millantava un torrido flirt balneare à trois, nell’estate del ’63, con Alberto Bevilacqua e Romano Battaglia – si appuntò sul prosperoso petto, col rossetto, sia “docendi” che “discendi”; aggiungendo, ché non si sa mai, “afflato”. Io invece mi ero fatto tatuare sulla fronte, a caratteri cubitali, “Post-moderno”.
L’assessore regionale alla cultura dell’epoca lo salutò a nome dell’intera Gente d’Abruzzo. “Professor Eco, ho letto e riletto tutte le sue opere. In particolare mi ha colpito “Il pendolo di Foucault” (pronunciandolo proprio così, Fou-cault). L’Umberto inarcò un sopracciglio d’altronde inarcato almeno da quella fantasmagorica estate del ’63. Eppure non sciorinò il suo proverbiale sarcasmo: Lui, l’autore de “Il Nome della Rosa”, lo scrittore italiano più tradotto al mondo, il grande semiologo e filosofo. Il Roland Barthes italiano. Lui, l’ultimo dei maitre-à-penser. Come e più di Jovanotti. “Prendere parte a convegni come questi è un po’ come assistere, in prima visione, ai propri funerali”. L’assessore si toccò le istituzionali parti basse. “Io non leggo – aggiunse l’Eco -: scrivo. E trovo stucchevole il solito gridare all’analfabetismo di ritorno da parte della nostra classe intellettuale”. La vetusta romanziera, anch’Ella classe intellettuale, e per di più emergente, si appuntò sul petto – spazio ce n’era – “stucchevole”. Sommo sacerdote del pensiero laico europeo, ci spiega meglio la genesi dei suoi romanzi? “Parto da un’immagine, magari ossessiva; in seguito mi informo, mi documento, mi guardo intorno”. Inarrivabile stella polare per tutti coloro che anelano un’esistenza non confortata dal benessere e dagli status-symbol, ma dalle opere della mente: cosa significa, oggi, il concetto di post-moderno? “Post-moderno non significa nulla”. E l’assessore e la Vetusta seguiti poi dal resto del pubblico intonarono, girandosi verso di me: “Questo è l’ombelico del mondo/Questo è l’ombelico del mondo”.