Il 4 marzo 2013 a causa degli scavi per la costruzione della metropolitana, un'ala di Palazzo Guevara si sgretolò. Il giudice monocratico: "Errori in fase progettuale e preminenza ad interessi economici piuttosto che alla salvaguardia della sicurezza e della incolumità pubblica e privata"
Quattro marzo 2013: mentre a Napoli veniva sventrata la Riviera di Chiaia per completare la stazione della metropolitana (Linea 6), un’ala del bel palazzo affacciato sul golfo si sgretolò come un castello di sabbia. Solo il tempismo del portiere e del direttore del cantiere che si attaccarono al citofono facendo scendere per strada tutti i condomini evitò la tragedia già “annunciata” da pile di documenti lasciati impolverati negli uffici competenti.
Quella era una zona ad alto rischio ambientale, le caratteristiche geologiche del terreno non consentivano i lavori di scavo che andavano immediatamente interrotti. Invece si continuò a scavare, a crivellare nel ventre molle della città. E adesso la sentenza appena emessa dal giudice monocratico Maria Luisa Arienzo del Tribunale Ordinario di Napoli condanna in maniera definitiva l’Ansaldo, azienda appaltatrice dei lavori, il Comune, più una filiera di altre società coinvolte nella progettazione e costruzione. E li obbliga, oltre a pagare le spese processuali, a provvedere alla “immediata messa in sicurezza”di Palazzo Guevara di Bovino realizzando “una zattera di fondazione in cemento armato estesa a tutta l’area di sedime del civico 71”. Accolto, dunque, il ricorso presentato dal condominio e dai proprietari del palazzo, la cui ala crollò.
La sentenza parla di “errori e deficienze della fase progettuale, delle anomalie registratesi durante la realizzazione (…) mentre invece la sconsiderata attribuita preminenza ad interessi economici piuttosto che alla salvaguardia della sicurezza e della incolumità pubblica e privata”. Come si legge a pagina 14 della sentenza, ci fu una riunione tecnica il 25 febbraio 2013, a pochi giorni del crollo, per discutere della ripresa dei lavori rimasti sospesi a seguito dell’allarme destato dal precedente episodio del gennaio 2013 (le crepe comparse suscitavano già parecchi dubbi). La sentenza, nero su bianco, parla di “scellerata determinazione” a riprendere i lavori, dalla quale emerge una “inescusabile violazione degli obblighi specifici insiti nelle funzioni di controllo e di vigilanza spettanti alla concedente, al concessionario e alle imprese appaltanti”.
In attesa dei rinvii a giudizio nel penale e della quantificazione dei danni che sono decine e decine di milioni, occhi senza lacrime davanti al palazzo ancora ferito a morte: non sono neanche cominciati i lavori di ristrutturazione e della messa in sicurezza del palazzo. L’ormai “iconografico” tappeto penzolante dalle macerie dell’ultimo piano (sì, proprio quello sotto la piscina abusiva), è stato tolto da poco. I detriti del palazzo nobiliare in pietra di bugnato, fiore all’occhiello della Napoli storica, una volta sede del Consolato francese, non sono ancora stati rimossi (del tutto) e i curiosi ancora scattano foto con i loro iPhone come se fosse un monumento da Grand Tour. In quel palazzo è nato e viveva anche Guido di Marzo, ex ufficiale di Marina della seconda guerra mondiale, ex direttore della Rai, sede di Napoli, 93 anni. Il figlio Luca, professore universitario, lo venne a prendere di corsa per portarselo a Roma. Ma il vecchio padre sconsolato ripete: “Voglio morire nella mia città”.