Ve li immaginate Bob Woodward e Carl Bernstein che dopo lo scandalo Watergate si presentano dolenti e contriti in tv, il capo cosparso di cenere, per attaccare la loro fonte anonima della Cia (“Gola Profonda”) e scusarsi per lo scoop sul Washington Post che valse a loro il premio Pulitzer e al presidente Nixon le dimissioni? Difficile: in America tutti i giornalisti sognano di stroncare la carriera all’uomo più potente del mondo.
Dunque il misterioso funzionario non svelò alcun segreto, e nemmeno i giornali che le raccontarono. Ma, anche se ci fosse stato qualche segreto, non si vede di che dovrebbe dolersi o scusarsi un giornalista, che dovrebbe appunto svelare i segreti del potere e raccontarli agli eventuali lettori. L’intento dell’editorialista-penitente è chiaro: portare altra acqua al mulino della Banda Larga che, cavalcando i piagnistei di D’Alema per lo scandalo di Ischia, torna alla carica per approvare l’agognato bavaglio alla stampa. Ai bei tempi, anche in Italia, i politici tentavano di mettere la museruola ai giornalisti e i giornalisti si ribellavano. Ora no. Da quando fu intercettato indirettamente a Palermo l’intoccabile Napolitano sui telefoni di Mancino e la grande stampa implorò i giudici di distruggere i nastri per non rischiare di trovarli e di doverli pubblicare, i signorini grandi firme chiedono a gran voce ai politici: “Allora, quando arriva questa benedetta mordacchia?”.
Perduta ogni residua traccia di orgoglio professionale, e persino di senso dell’orientamento, si identificano con i politici che dovrebbero controllare e tremano all’idea di svelare uno scandalo che metta in imbarazzo il potere. Infatti, non appena dalle carte dell’ultima inchiesta di Napoli sono emersi i nomi di Renzi, Lotti e Nardella, hanno precauzionalmente smesso di occuparsene. Pazienza D’Alema, che ormai è un ex. Ma i nuovi padroni del vapore no, per carità, non esageriamo. Altrimenti poi chi ce l’ha il coraggio di andarlo a dire ai direttori-manutentori? Facciamo tutti insieme ‘sto bavaglio e non se ne parli più: meglio scrivere di gastronomia, giardinaggio, uncinetto, pizzi e merletti.
Basta vedere con quale entusiasmo la stampa italiana ha raccolto il grido di dolore di Sorgi. Il Giornale, che da anni nega l’evidenza della compravendita berlusconiana dei senatori dell’Unione fra il 2006 e il 2008, riesce addirittura a titolare: “La manina dei pm nella caduta del governo Prodi”. E a scandalizzarsi per l’inesistente violazione del segreto sulle intercettazioni dei Mastella: l’unico segreto violato nell’ultimo decennio uscì proprio sul Giornale, che nel 2006 pubblicò giustamente la telefonata Fassino-Consorte sulla scalata Unipol- Bnl: i magistrati non l’avevano né trascritta né depositata, ma fu recapitata illegalmente (da un dirigente della ditta che aveva in appalto le intercettazioni) a Paolo e poi a Silvio B., e da questi a un cronista del Giornale. Uno spasso.
Casomai poi qualcuno fosse interessato a sapere come andarono davvero le cose nel 2008, tra il blitz sui Mastella’s il 13 gennaio e la sfiducia a Prodi in Senato il 24 gennaio, è tutto molto semplice. Con buona pace di chi incolpa ora l’inchiesta Why Not condotta a Catanzaro da De Magistris con il consulente Genchi (che aveva portato all’iscrizione fra gli indagati di Prodi e Mastella mesi prima, fra l’estate e l’autunno 2007), ora a quella di Santa Maria Capua Vetere (culminata negli arresti del gennaio 2008), Prodi cadde perché B. aveva comprato alcuni senatori cash (tipo De Gregorio) e altri con promesse di poltrone (i diniani e non solo). E Prodi, che al Senato si reggeva su un paio di voti di scarto, quando anche Mastella lasciò il governo e poi la maggioranza, cadde.
Ora Mastella evoca fantomatici “poteri che spero di decifrare e concorsero in maniera violenta ad umiliare la mia persona, la mia famiglia, a determinare la caduta del governo Prodi”. Ma si sottovaluta. L’11 marzo 2008 lui stesso rivelò a City: “L’accordo con Berlusconi c’era ed era pure su carta. Poi è venuto meno. Qualcosa di misterioso è accaduto contro di me”. Ora è normale che Mastella tiri l’acqua al suo mulino. Un po’ meno che lo facciano i giornali, raccontando che Prodi cadde per colpa di De Magistris, ma anche per dei pm di Santa Maria Capua Vetere.
Ragazzi, se non riuscite proprio a dire la verità, almeno sincronizzate le balle.
Il Fatto Quotidiano, 5 aprile 2015