Quando il disseccamento inizia a colpire anche gli ulivi millenari del Salento, l’ostinazione prende il posto di pazienza e rassegnazione. E allora, sì, si provano tutte. “Un albero come questo non lo riformi”, dice Enzo Manni, a capo della cooperativa Acli di Racale, guardando il “gigante di Felline”, un patriarca verde di 1500 anni. Nelle campagne a sud di Gallipoli, gli agricoltori non si danno pace: ad ogni cima bruna, una potatura. E poi le arature per ossigenare i terreni. E poi i trattamenti, per quanto non di rado sbagliati, visto che gli erbicidi abbondano nei campi. In ogni caso, tutto è a carico dei contadini, “che dopo un anno senza reddito e uno in cui non se ne aspettano, non ce la fanno a sostenere questi costi”, spiega Federico, tra i giovani a popolare il “Comitato Voce dell’ulivo”. Per molti anni, tanti oliveti sono rimasti in stato di semiabbandono colturale. Adesso, ci si aggrappa con forza ad ogni speranza, perché stavolta non si tratta di perdere un albero, ma anche un intero paesaggio, un’intera economia, la storia secolare di una terra che negli ultimi anni ha alzato la testa. “Ma più che lasciati soli, ci sentiamo completamente abbandonati”, riflette nel suo opificio Giovanni Melcarne, presidente del Consorzio Olio dop Terra d’Otranto. Non aiuta la scienza, che, anzi, si divide. “Le piante ammalate fanno prima o poi una brutta fine. Meglio toglierle che trovarsi di fronte ad uno spettacolo di fu oliveti scheletriti”. È una sentenza senza appello quella di Giovanni Martelli, professore emerito di Patologia vegetale presso l’ateneo di Bari, colui che per primo ha “intuito” che potesse c’entrare Xylella fastidiosa. Diversamente dal decano di tutta la ricerca barese la pensa, però, Cristos Xiloyannis, docente di Coltivazioni arboree nell’Università della Basilicata e punto di riferimento dell’agroecologia nel Mediterraneo: “l’eradicazione delle piante non serve – spiega – e ce lo insegnano le altre emergenze che ci sono state, come la batteriosi del kiwi. Non si combatte la malattia, ma si convive, attraverso le buone pratiche. Sarà l’ecosistema nel complesso a dare risposte”. È quello che ha provato a fare sin dall’inizio l’associazione Spazi Popolari di Sannicola: nello stesso campo, gli ulivi non trattati sono diventati carbone, quelli curati in modo sostenibile hanno ripreso a vegetare. “E’ come la barba che cresce ai morti”, hanno sminuito alcuni. Gli attivisti sono bollati come “santoni”, eppure 500 alberi dati per spacciati al momento continuano a vivere, sotto gli occhi di tutti, e né istituzioni né ricerca hanno provato a dare validazione scientifica a questi esperimenti. A tenere in considerazione quell’esperienza, però, è la Procura di Lecce, guardinga rispetto ad eventuali speculazioni che potrebbe partorire lo stato di emergenza proclamato dal governo: “ci sono stati agricoltori che sono riusciti ad arginare la diffusione della malattia con metodi tradizionali. Nonostante l’apparente urgenza – avverte il procuratore capo, Cataldo Motta – sarei molto cauto nell’applicazione di strumenti che porterebbero un danno serio al paesaggio e all’economia. Misure assai drastiche sarebbero sconvolgenti per il territorio” di Tiziana Colluto