I giudici amministrativi hanno dato ragione a Vodafone, che contestava l'ammontare dei contributi annuali: annullati 50 milioni di euro di conguagli richiesti dall'authority, che ne spende ogni anno 70 e potrebbe ritrovarsi a secco. E che annuncia il ricorso. Intanto due sigle sindacali hanno inviato un esposto alla Commissione Europea per "violazione da parte dello Stato italiano della disciplina di settore”
Altro che spending review del governo. L’Agcom rischia di restare a secco ben prima delle sforbiciate di Matteo Renzi. Con la probabilità, sempre più concreta, che l’autorità presieduta da Angelo Cardani finisca ben presto in conto ai contribuenti. Il timore di un’imminente penuria di fondi già agita i sindacati che temono per gli stipendi: sulla base delle “criticità nella riscossione del contributo per il funzionamento dell’Agcom per l’anno 2015 – si legge in una recente comunicazione ai dipendenti dell’autorità – queste organizzazioni sindacali (Falbi-Confsal e Sibc-Fisav) hanno provveduto negli scorsi giorni ad inviare uno specifico esposto alla Commissione Europea per violazione da parte dello Stato italiano della disciplina di settore”.
Ma quali sono le “criticità di riscossione” di cui parlano i sindacati? E soprattutto quali possono essere i loro effetti sul bilancio di un’autorità che nel 2014 non solo era in attivo, ma prestava anche soldi ad altre autorità indipendenti? Per comprendere le ragioni del nervosismo del sindacato, bisogna risalire a un recente ricorso perso in Consiglio di Stato. La sentenza, depositata lo scorso 5 febbraio, riguarda una controversia con Vodafone. L’operatore di telefonia ha contestato la dimensione dei contributi che gli operatori devono versare al garante delle comunicazioni. E i giudici gli hanno dato ragione facendo sciogliere come neve al sole circa 50 milioni di euro di conguagli richiesti dall’Agcom per il periodo 2006-2010: 14,59 da Vodafone, 26,75 da Telecom, 9,6 da Sky, 2,9 da Wind e 519mila euro da Fastweb. La cifra non è da poco se si considera che l’authority registra ogni anno uscite per circa 70 milioni di euro, somma sborsata dagli stessi operatori con un prelievo obbligatorio pari al 2 per mille del fatturato.
Ma i problemi emersi con la sentenza non si limitano purtroppo ai conti del passato. I magistrati amministrativi hanno messo infatti in discussione la base di calcolo utilizzata per definire i contributi degli operatori: secondo il Consiglio di Stato “l’Autorità ha sic et simpliciter spostato il calcolo della base imponibile dai ricavi al netto di quelli per attività non riconducibili tra i servizi non regolamentati ai ricavi al netto di quelli non conseguiti nel settore delle comunicazioni elettroniche”. Detta in altri termini, secondo i magistrati, l’Agcom ha allargato oltre misura la base di calcolo del contributo e ha caricato sulle spalle degli operatori non solo i costi delle attività regolamentate, ma anche quelle non regolamentate. Come la vigilanza sulla par condicio e la risoluzione delle controversie tra fornitori e utenti.
I magistrati sentenziano che “scolorano (..) le considerazioni dell’appellante (l’Agcom, ndr) laddove afferma la necessità di un’ampia base contributiva, a carico degli operatori in quel mercato di riferimento, qual forma di garanzia della sua indipendenza”. Per garantire un prelievo equo e correttamente calcolato, il Consiglio di Stato ha chiesto invece all’Agcom di pubblicare un dettagliato rendiconto annuo, come previsto dalle direttive europee sulle autorità indipendenti. “Si tratta d’un documento che non coincide con il bilancio dell’Autorità, né lo doppia, giacché esso serve al calcolo, anch’esso soggetto a facile e immediata leggibilità, delle differenze tra l’importo totale dei diritti riscossi ed i costi amministrativi sopportati, al fine pure di apportare le opportune rettifiche, in dare o in avere con le imprese contribuenti”, chiariscono i magistrati.
L’Agcom dal canto suo interpellata dal ilfattoquotidiano.it, ha comunicato di aver già predisposto una contabilità analitica per l’anno in corso e di aver definito la contribuzione 2015 secondo i parametri del passato con la benedizione della presidenza del Consiglio dei Ministri. “La sentenza del Consiglio di Stato non è definitiva – ha spiegato il segretario generale dell’Agcom Francesco Sclafani, nei ranghi dell’Avvocatura dello Stato e ormai da quasi dieci anni in posizione fuori ruolo al Garante – Abbiamo intenzione di impugnarla nell’adunanza plenaria della Cassazione. Riteniamo si tratti di un incidente di percorso”. Incidente che però rischia di costare caro all’Agcom che in passato ha anche prestato denaro ad altre autorità come l’Antitrust, debitore che restituisce il credito a singhiozzo.
A meno di una netta inversione di tendenza in Cassazione, la situazione dell’Agcom, cui già la Corte dei Conti a luglio aveva chiesto di “avviare un compiuto controllo della spesa”, è quindi destinata a diventare incandescente. Proprio mentre l’autorità ha appena concluso una riorganizzazione e una tornata di promozioni. Fra queste, quella di Mario Staderini, ex segretario del Partito Radicale diventato dirigente in seguito a un concorso pubblico, a lungo in aspettativa e recentemente nominato responsabile della direzione Tutela dei consumatori, incarico che tuttavia non gli ha comportato un consistente ritocco dello stipendio. E poi anche la nomina ai vertici della direzione Infrastrutture e servizi di radiodiffusione di Antonio Provenzano, fidato assistente dell’ex commissario di Forza Italia Giancarlo Innocenzi e vicino anche al commissario Antonio Martusciello. “Abbiamo appena ultimato una ristrutturazione proprio nel rispetto della spending review – ha precisato Sclafani – Ci sono state riduzioni dei salari accessori come previsto dalla Madia e abbiamo dimezzato i costi per gli affitti. Nell’ambito di questo riassetto abbiamo sostenuto l’avanzamento dei giovani. Il tutto senza aggiungere un euro in più alla spesa complessiva”. Per i vertici Agcom la riorganizzazione è insomma un piccolo importante tassello che tuttavia rischia di essere una goccia nel mare nel caso in cui l’autorità dovesse essere obbligata ad allineare i contributi 2015 alla visione del Consiglio di Stato. Ipotesi, quest’ultima, che se materializzata, obbligherebbe presto Renzi a un salvataggio in extremis.