Professore di Diritto del Lavoro alla Statale, Alessandro Boscati è autore di una monografia sul testo che approda in Senato. A ilfattoquotidiano.it spiega perché il testo del governo non è la migliore delle cure contro il "legame perverso tra vertici delle amministrazioni pubbliche e politici" che alimenta sprechi e scandali d'Italia. Ma è un’ottima premessa per le recidive
Subito la domanda dalle cento pistole: la riforma fa piazza pulita degli Incalza e dei burocrati al servizio di politici e imprese?
No, nel senso che la riforma considera solo marginalmente i dirigenti esterni, quelli a termine. All’esito dei lavori della commissione il testo presentato, riprendendo quanto già formulato dal decreto 90 di quest’estate con riferimento ai dirigenti a contratto degli enti locali, prevede che siano scelti tramite procedure selettive e comparative.
Invece è segnato il destino dei dirigenti di ruolo…
La riforma in buona sostanza prevede una dirigenza sempre più fiduciaria, che viene scelta nelle figure apicali dal livello politico, senza neppure dover motivare la congruità della scelta. Mi spiego. La riforma prevede l’istituzione di una commissione formalmente autonoma ma incardinata presso il Dipartimento della Funzione Pubblica, e, dunque, presso la “struttura politica”. La commissione dovrà predefinire un certo numero di dirigenti idonei a svolgere incarichi apicali e il politico potrà scegliere in questa rosa senza dover giustificare in alcun modo la scelta. Per gli incarichi meno rilevanti, quelli di seconda fascia per intenderci, la commissione dovrà, invece, validare ex post le scelte effettuate .
Con quali effetti e rischi?
L’effetto è che il modello prevede una dirigenza di prima fascia strettamente solidale con la politica; una dirigenza di prima fascia che è deputata a conferire gli incarichi a quella di seconda fascia con la conseguenza di un inevitabile slittamento in avanti verso la politica. Il che certamente può incidere sul conclamato principio di distinzione funzionale tra politica ed amministrazione.
Le controindicazioni?
Una interdipendenza ancora più stretta tra dirigenza e politica. Il vero tema, non eluso dalla riforma, ma a mio avviso non adeguatamente valorizzato in ragione del ruolo che assume quale bilanciamento del sistema riguarda la valutazione del dirigente. Si prevede una semplificazione dei sistemi di valutazione e questo lo valuto certamente in maniera positiva in una logica di effettività della valutazione. Talvolta modelli troppo elaborati sono stati paradossalmente di ostacolo alla valutazione. Dunque, non solo mancanza di strumenti, ma anche la situazione opposta. Credo che alcune semplici, ma certe regole siano nel contempo indispensabili e sufficienti. Ma vi è profilo che deve essere considerato e che è strettamente connesso a quanto appena detto. La valutazione presuppone una preventiva definizione tempestiva e specifica degli obiettivi. Il punto, e verrebbe da dire da sempre, è che se gli obiettivi vengono dati in ritardo o sono troppo generici la valutazione non potrà essere oggettiva e dunque potrà essere arbitraria. E questo rende non trasparente e lineare il rapporto tra le due parti, portandole a volte al conflitto e a volte a una non sempre sana complicità. Il che comporta quale effetto “di sistema” una maggiore fedeltà al livello che ha potere di vita e di morte su una carriera, e dove l’elemento fiduciario rischia di essere non più oggettivo ma soggettivo. Dunque, nella sostanza, una flessibilità negli incarichi che pare lasciare il posto ad una loro “precarietà”
E dunque quale giudizio ha della riforma?
In generale è un testo senza dubbio migliorabile, come tutte le proposte normative. L’insieme delle norme di partenza, ovvero la disciplina oggi vigente, non è congeniata male, ma l’attuazione pratica è il problema. Ciò anche in ragione di alcune specifiche criticità che sono state in più sedi evidenziate, prima fra tutte quella dottrinale, e che richiederebbero forse interventi più ponderati. Interventi che si limitino ad una semplice manutenzione in molti ambiti uniti a più profonde modifiche in altri. Della valutazione si è già detto, ma anche dell’accesso in cui ad interessanti nuove idee si uniscono alcune soluzioni tecniche non proprio coerenti, ovvero, prima fra tutte il fatto che il neo assunto dirigente sia sottoposto dopo un triennio ad un nuovo esame di conferma, ove, invece, la non idoneità dovrebbe essere accertata “sul campo” in questo periodo e costituire ragione di recesso da parte dell’amministrazione. Ma il “peso politico” del tema fa sì che maggioranze di ogni colore che arrivano pretendono di rifondarla integralmente, anziché limitarsi a migliorare un sistema di regole che c’è e potrebbe funzionare, se opportunamente corretto e attuato.
Madia e Renzi però annunciato grandi novità, dicono che “finalmente” si potranno licenziare anche i dirigenti pubblici…
Appunto, è l’esempio di previsioni di legge che vengono presentate come nuove ma non lo sono affatto. Semplicemente non trovano applicazione o vengono applicate male. E’ il caso della valutazione e del licenziamento dei dirigenti pubblici “inadeguati” che ci si ostina a presentare come “irremovibili” quando non è così. I dirigenti in realtà sono da sempre “amovibili”. L’articolo 21 del d.lgs 165/2001 in materia di responsabilità dirigenziale tutt’ora in vigore, le disposizioni in materia di responsabilità disciplinare che includono senza dubbio alcuno anche i dirigenti, ma ancor prima già le norme della c.d. prima privatizzazione degli anni ‘90 , consentono di revocare incarichi e addirittura licenziare i dirigenti che, a seguito di valutazione, non risultino in grado di conseguire gli obiettivi o sia risultati “infedeli”, compresi quelli che senza motivazioni tecniche o giuridiche violino le “direttive politiche”.
E perché ne vengono licenziati così pochi da ingenerare il dubbio che siano inamovibili?
Come spesso capita, non è un problema di carenza di regole ma di attuazione. Abbiamo visto che non è da ora che si scopre che i dirigenti sono licenziabili, lo erano anche prima. Il punto è che molte volte si agisce male o in ritardo sull’azione disciplinare, pressoché assente l’azione per responsabilità dirigenziale. Magari per eccesso di cautela visto che in alcuni casi non si vuole incorrere nel rischio di un’eventuale reintegrazione per valutazioni diverse del giudice del lavoro con le conseguenze che ciò può comportare sul piano della responsabilità contabile.
La riforma segna la fine delle “carriere automatiche”?
E’ un altro mito da sfatare che i dirigenti pubblici possano beneficiare di una progressione automatica di carriera. Sia perché in molti comparti – come le regioni e gli enti locali – non ci sono le due fasce e sia perché l’ascesa della seconda alla prima fascia avviene o per selezione, oppure per scelta discrezionale dell’organo politico, mai per “automatismi”. Il disegno di legge in questo rischia di realizzare i risultati opposti alle enunciazioni. Infatti, puntare su una sorta di “abilitazione” della dirigenza significa lasciare mano libera agli organi politici di assegnare gli incarichi con piena discrezionalità. Tanto è vero che nel ddl si dispone che ai dirigenti appartenenti ai ruoli, dunque ai dirigenti di carriera, gli incarichi dirigenziali “possono” essere conferiti, non “debbono”, come sarebbe norma. Il ché permette, allora, alla politica di infarcire la dirigenza di incarichi provenienti dall’esterno dei ruoli e attivare uno spoil system, senza doverlo regolare esplicitamente.