Dal 2008 sono stati introdotti come metodo alternativo per pagare il lavoro occasionale accessorio incorporando già una quota di tasse pagate, di Inps e Inail. Un'opportunità per favorire l'emersione del nero, ma i timori sono che aumenti l'area di lavoro incontrollato e non tutelato
Bisognerebbe portarli con sé nel portafogli, tra la carta di credito e quella d’identità, per far emergere dal nero i lavori saltuari o i secondi impieghi occasionali in casa o in azienda. Sono i “buoni lavoro” che permettono di pagare il singolo lavoratore per ora lavorata, senza bisogno di stipulare alcun contratto. E all’occorrenza, possono essere usati per pagare la badante, l’elettricista, il giardiniere, il professore che impartisce ripetizioni private, ma anche i lavoratori agricoli stagionali, chi fa volantinaggio o l’animatore nei villaggi turistici. Il tutto riuscendo a tutelare i lavoratori precari e senza diritti.
Valgono 10 euro ciascuno e comprendono la contribuzione in favore della Gestione separata dell’Inps (13%), l’assicurazione all’Inail (7%) e un compenso all’Inps per la gestione del servizio. In tasca al lavoratore restano, quindi, 7,50 euro netti non dovendo pagare imposte sul reddito incassato. Compenso che può essere accreditato sull’Inps Card (se è stata attivata) o riscosso presso tutti gli uffici postali.
Un po’ come succede da anni e con notevole successo in Francia, dove i “Chèque emploi service universel” (ovvero gli assegni con cui il privato versa i contributi ai soli lavoratori che si occupano di servizi alla persona come badanti, baby sitter e colf) sono diventati il fiore all’occhiello di un sistema fiscale all’avanguardia e a misura di welfare. Ma Oltralpe sono riusciti nell’obiettivo di migliorarne l’accesso, perché i voucher hanno un campo di applicazione limitato e sono anche previste della detrazioni fiscali che ne invogliano all’utilizzo.
Un aspetto più innovativo che, invece, si è perso nella trasposizione italiana dei buoni lavoro che sono stati introdotti in sordina nel BelPaese in occasione della vendemmia del 2008. Poi, passando per la riforma della Legge Fornero del 2012, se n’è ampliato sviluppo e diffusione con l’estensione della platea dei beneficiari che ha abbracciato anche attività agricola, commercio, giardinaggio e pulizia, lavori domestici, manifestazioni sportive e culturali, servizi, turismo. Fino ad arrivare alle ultime novità previste dal Jobs Act, vale a dire l’aumento del tetto massimo di reddito previsto per questi lavori marginali che da 5mila euro netti l’anno passerà a 7mila, rimanendo comunque sempre al di sotto della soglia della no-tax area. Con imprenditori e professionisti che dovranno, invece, continuare ad utilizzare un lavoratore per non più di 2.000 euro all’anno.
Un aumento del tetto dei compensi che ha subito scatenato le proteste dei sindacati, secondo i quali la politica italiana ha riservato ai buoni lavoro un po’ troppi obiettivi e competenze per regolamentare un metodo alternativo di pagamento per il lavoro occasionale accessorio. “Con il timore che – spiega Claudio Treves, segretario generale di Nidil Cgil – si abusi dei voucher, aumentando l’area del lavoro incontrollato e non tutelato. Nulla impedisce ai datori di lavoro di sfruttare i voucher per sostituire un singolo lavoratore dipendente con più persone pagate con il buono”. E le risorse di certo non mancano.
Basti pensare che, secondo gli ultimi dati forniti dal ministero dell’Economia sui redditi del 2014, ci sono stati 424mila contribuenti che hanno dichiarato di aver guadagnato tra 5mila e 6mila euro. Tutti, quindi, possibili percettori di voucher. Anche se, va sottolineato, che questo innalzamento del tetto per ora resta su carta in attesa che il decreto attuativo concluda il suo iter e abbia il visto delle commissioni parlamentari.
Rassicurazione che continua a non convincere Treves, secondo il quale “a rischiare di più da questo smascheramento del lavoro strutturato sono soprattutto i lavoratori stagionali che rischiano di vedersi negato un contratto di collaborazione regolamentato, con una forma di lavoro subordinato che viene così trasferita nel lavoro accessorio. I casi sono noti: il personale che lavora nei villaggi turistici da giugno a settembre o i ragazzi che fanno volantinaggio”.
Insomma, un’occasione sprecata secondo la Nidil Cgil, visto che le premesse per sfruttare le potenzialità dei voucher sono diverse: il compenso percepito è esente da qualsiasi imposizione fiscale e non incide sullo stato di disoccupato o inoccupato, il reddito concorre ai fini del rinnovo del permesso di soggiorno e regolarizza la posizione dei lavoretti effettuati dai dipendenti pubblici o privati, pensionati, cassintegrati e casalinghe.
Fattori vincenti che per Rosario De Luca, presidente della Fondazione studi dei consulenti del lavoro “si riscontrano nei numeri raggiunti: se nel 2013 sono stati usati 41 milioni di ticket, per un controvalore di 410 milioni di euro, lo scorso anno i buoni sono cresciuti quasi del 70% fino a sfiorare quota 700 milioni di euro”. E a usarli, in particolare, sono quattro regioni del Nord: Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Piemonte, che insieme contano per oltre la metà del mercato. Quasi sconosciuti, invece, al Sud.
Sulle criticità del buono lavoro, De Luca non ha dubbi: “Le aziende che decidono di fare nero non utilizzerebbero comunque questo strumento che, invece, per la prima volta ha regolarizzato piccole prestazioni occasionali. Il limite che, invece, abbiamo riscontrato è la difficoltà di accesso al buono stesso. Il datore di lavoro, infatti, per attivare i voucher acquistati presso le sedi Inps, i tabaccai, gli sportelli bancari e gli uffici postali deve sempre utilizzare una procedura telematica che evidentemente ne scoraggia l’utilizzo”.