Vuole chiamarla “Terra delle Nebbie“. Non perché siamo nelle campagne del Novarese, dove d’inverno tutto viene avvolto da banchi grigi e invalicabili come muraglie. Ma “perché qui siamo ancora un passo indietro: non sappiamo quali materiali o rifiuti siano stati sversati nel terreno. Il sospetto, però, è che si tratti di qualcosa di pericoloso. I precedenti sul nostro territorio non mancano. Ma i controlli, che negli anni non sono mai stati fatti, non sono ancora stati avviati. Le analisi per dare il via a eventuali bonifiche costano troppo e il Comune non ha abbastanza risorse”. Il “precedente” più eclatante sono gli idrocarburi, il piombo e gli altri veleni scovati nella cava di un imprenditore ucciso a fucilate nel suo ufficio cinque anni fa, in un contesto che gli inquirenti hanno definito “paramafioso”. Altre indagini suggeriscono che quei veleni non siano gli unici sotterrati in questo angolo del Piemonte.

Romentino: il paese delle cave
Alessio Biondo
ha 40 anni: capelli e pizzetto neri, occhiali da bravo ragazzo sul naso. E’ un ingegnere laureato al Politecnico di Torino. Il suo impegno in politica è sempre stato legato ai temi dell’ambiente e alla tutela del territorio. Da maggio è sindaco – eletto nelle fila del Pd – di Romentino, piccolo centro di 5mila cinquecento anime incastonato tra Novara e il fiume Ticino, che si estende su una superficie di 17 chilometri quadrati. La stessa superficie è occupata dalle cave: enormi avvallamenti di terreno a 10 minuti di auto dal paese, mangiati dalle ruspe e infestati da vagli – così si chiamano i giganteschi macchinari che servono a dividere i vari tipi di sabbia – bilici e montagne di terra che si ergono accanto ai campi coltivati. In tutto sono quattro, di diversa grandezza. Per anni, da qui, si sono estratti sabbie, ghiaia e materiali destinati all’edilizia per le autostrade, la Tav e i ricchi cantieri della Lombardia. Regione che per i cavatori prevede oneri di scavo molto più alti rispetto a quelli del Piemonte, dove quindi per i costruttori i prezzi rimangono più contenuti. Un tempo rappresentavano una risorsa, dunque. Adesso che l’attività estrattiva è quasi ferma, fanno solo paura.

La crisi, i riempimenti e l’ombra della criminalità
Fino al 2007-2008, il business principale dei proprietari di cave consisteva nell’attività estrattiva. “L’imprenditore – spiega Biondo – scavava (a volte più del limite consentito dalla legge fissato a due metri e arrivando, in alcuni casi, anche fino alla falda acquifera), vendeva quello che estraeva dal terreno, che veniva poi riempito con terre di scavo o altri materiali ‘consentiti’, infine lo riconsegnava e la terra veniva destinata alle coltivazioni”. Ma la crisi che ha morso anche l’edilizia ha cambiato le regole del gioco: si vende meno, si scava meno, si guadagna meno. “Quindi – ragiona il sindaco – il riempimento si è trasformato nell’affare più redditizio. Il viavai dei camion era continuo, a tutte le ore. Il Comune non aveva né soldi né personale per vigilare. E la criminalità – organizzata o meno – potrebbe averne approfittato. Bastava mettere in pratica il sistema del ‘giro bolla‘, che falsifica la vera natura del rifiuto riportata sulla documentazione. Qui sotto potrebbe essere stato sversato di tutto: la situazione era totalmente fuori controllo“.

L’omicidio di Ettore Marcoli
Almeno fino al 2010. Quando i sospetti e le ombre si sono addensate sulle cave come una nebbia cupa. Lo hanno fatto trascinandosi dietro l’eco degli spari: quelli che il 20 gennaio di cinque anni fa hanno ucciso l’imprenditore Ettore Marcoli, proprietario della cava Romentino Inerti (nella foto). Il suo omicidio – ricostruito in un bel libro di Marta Chiavari (La Quinta Mafia, edito da Ponte alle Grazie) – focalizza bene la metamorfosi compiuta nel contesto delle cave. Nel 2007 la Ettore Marcoli spa viene dichiarata fallita dal Tribunale: troppi debiti. Ma dopo la bancarotta della società, la famiglia Marcoli rileva i due rami principali: la costruzione delle strade e la cava, nonostante l’attività estrattiva si fosse pressoché esaurita. Marcoli, però, strozzato dai debiti, in difficoltà con gli stipendi dei dipendenti e in credito con i committenti pubblici sempre in ritardo con i pagamenti, si convince che la cava possa rappresentare ancora una risorsa e soprattutto portare soldi: tanti e subito. Come? Riempiendo quel grande buco nel terreno con rifiuti, meglio se pericolosi. Ed è qui che entra in gioco Francesco Gurgone, giovane imprenditore della movimentazione terra, indebitato con Marcoli. Gurgone è uno che in paese si dà arie da “mafiosetto“, scrive il gip. Anche se non risulta legato al locale di ‘ndrangheta di Novara. E’ lui – secondo gli inquirenti – a mettere in contatto Marcoli con personaggi della criminalità organizzata interessati a smaltire scorie industriali e pronti a pagare in contanti. Ed è sempre lui per i giudici il mandante dell’omicidio. Perché Gurgone fiuta le potenzialità e i guadagni che derivano dall’algoritmo cave-rifiuti. E decide di voler mettere le mani su quella di Marcoli, che non la vuole cedere. E’ in questo istante che scatta il cortocircuito. Gurgone vuole “sistemare” Marcoli. Dargli “una lezione“. Il 20 gennaio 2010 alle 19 e 10 due uomini armati con un fucile calibro 12 e un Browning a canne mozze entrano nell’ufficio dell’imprenditore e fanno fuoco. Poi salgono a bordo di un’auto guidata da un complice e svaniscono fino al momento dell’arresto. Ma quello i Marcoli non verrà mai considerato un omicidio di “mafia”, ma “paramafioso”. Perché chi lo pianifica e chi preme il grilletto non è legato alla criminalità organizzata. Ma i metodi utilizzati e gli interessi in campo, quelli sì, possono essere bollati come mafiosi. Anche se tutto è andato in scena non a Platì o a Corleone, ma nelle campagne piemontesi.

Le analisi dei terreni nella Romentino Inerti
La cava invece è stata sequestrata: fra un anno verrà messa all’asta. “Ma non credo che ci sarà la fila per acquistarla”, prevede il sindaco che vorrebbe bonificarla e farne un’oasi verde. Soldi permettendo. Perché nel frattempo il terreno è stato passato al setaccio. E le analisi hanno cristallizzato la presenza di idrocarburi, zinco, rame, metilfenoli e piombo. Ecco cosa si legge nell'”Analisi di rischio sanitario ambientale” disposta dal curatore fallimentare: “Lo studio condotto ha indicato la presenza di potenziali rischi per i bersagli della contaminazione (…) ovvero i fruitori dell’area a scopo ricreativo e la falda, considerata come risorsa indipendentemente dall’eventuale sfruttamento previsto”. Si parla di “rischi da suolo superficiale, correlati ai potenziali percorsi di esposizione diretta quali ingestione di terreno e contatto dermico; solo presso l’Area 3 il software indica un rischio potenziale da inalazione vapori. Relativamente al suolo profondo – viene scritto – non si rilevano rischi di alcun tipo”. Il pericolo è legato “alle sostanze PCB e Idrocarburi C>12”. Nonostante questo “i valori individuati sono tali da garantire il rispetto delle soglie di cumulatività dei rischi cancerogeni, sanitari e ambientali di tutte e 3 le aree, sia considerando la sorgente in suolo superficiale che profondo”. Situazione sotto controllo, dunque. Anche se viene consigliata “la messa in sicurezza” e l’isolamento del terreno dai possibili “fruitori”.

“L’omicidio Marcoli – ricorda Biondo – è stato uno spartiacque: da lì in poi anche le istituzioni hanno puntato la loro lente su quello che avveniva nel sottobosco delle cave. La Provincia ha messo qualche paletto, ma non è sufficiente per spazzare via lo spauracchio degli sversamenti illegali. Da quando si è insediata la mia giunta – sottolinea – abbiamo cercato di mettere un argine: stop ai riempimenti e agli scavi in falda. Inoltre i cavatori devono accettare controlli a sorpresa da parte della Commissione Ambiente e impegnarsi a pagare le analisi che verranno effettuate da esperti individuati dal Comune. So che bisognerebbe vivisezionare ogni centimetro di quei terreni, ma questo è un primo passo per evitare che da qui in poi si ripetano gli errori del passato. E soprattutto un anticorpo contro le possibili infiltrazioni della criminalità organizzata”.

L’inchiesta “Infinito” e gli sversamenti della ‘ndrangheta
Sì, perché qui la mafia – quella vera – ha già messo un piede. Lo dice un filone della maxi operazione “Infinito” del 2010 contro la ‘ndrangheta in Lombardia, che ha fotografato gli interessi dei mammasantissima nel business degli sversamenti. Come è dimostrato nel caso di un pezzo di terra – più vasto di un campo da calcio – un tempo scavato dalle ruspe della cava Molinetto, di proprietà di Vincenzino Ricciardo, padrone di una delle più grosse cave di Romentino (estraneo alle indagini), ma gestita da Francesco Giugni. Secondo l’antimafia milanese, tra il 2008 e il 2010, qui sarebbero state gettate tonnellate di rifiuti “speciali” (materiali da demolizioni e costruzioni). Quante? Non si sa. Ma è possibile farsi un’idea leggendo le parole del gip: “Solo nel corso del 2009 sono stati scaricati 2537 camion, tra bilici e 4 assi, mentre per l’anno 2008 i mezzi possono essere quantificati in 2444”. Più di 5mila camion in due anni. Le menti del traffico per gli inquirenti erano Orlando Liati e Stefano Lazzari, proprietari della ditta di autotrasporti “ElleElle” di Binasco, considerati vicini alla ‘ndrangheta, e i cui nomi spuntano anche nell’inchiesta del 2009 della Procura di Milano “Parco sud“.

Che le cave siano un terreno appetibile per la criminalità ne è convinto Roberto Leggero dell’associazione antimafia La Torre-Mattarella. “Non c’è contesto migliore: guadagni facili e pochi controlli. In più, la società del nord Italia, ammettendo che li abbia mai avuti, non possiede più quegli anticorpi che le permettono di respingere il rischio infiltrazioni. L’omicidio Marcoli ne è un esempio. Ma quell’assassinio è passato quasi sotto traccia davanti agli occhi dell’opinione pubblica”.

Aggiornato dalla redazione web il 10 aprile 2015

LA PRECISAZIONE DEL LEGALE DI FRANCESCO GIUGNI

Mi scuso per aver riportato nell’articolo pubblicato su ilfattoquotidiano.it il 9 aprile 2015 l’errata notizia della morte del Signor Francesco Giugni. L’informazione mi era stata data dal sindaco di Romentino Alessio Biondo, ma avrei dovuto compiere una ulteriore verifica. Premesso questo, la parte che viene contestata: “Come è dimostrato nel caso di un pezzo di terra – più vasto di un campo da calcio – un tempo scavato dalle ruspe della cava Molinetto, di proprietà di Vincenzino Ricciardo, padrone di una delle più grosse cave di Romentino (estraneo alle indagini), ma gestita da Francesco Giugni, nel frattempo deceduto”, emerge dall’ordinanza del 2013 del gip di Milano Andrea Ghinetti che ha firmato otto ordinanze di custodia cautelare, una delle quali a carico di Francesco Giugni (finito ai domiciliari, notizia della quale nell’articolo non viene dato conto). Il gip dice che la cava apparteneva a Ricciardo che aveva affidato alla ditta individuale di Francesco Giugni l’incarico di trovare la terra da scavo adatta al riempimento della cava, “affidandogli di fatto l’intera gestione  dell’area”, scrive il gip. La ricostruzione della vicenda riguardante la cava Molinetto è stata pubblicata su il Venerdì di Tribuna, e ripresa il 10 giugno 2013 dal sito di Libera – Osservatorio provinciale sulle mafie Novara, ecco il link: http://osservatorionovara.liberapiemonte.it/2013/06/10/la-ndrangheta-a-romentino/ (ab)

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