“In realtà non volevo ucciderla, volevo solo mangiarla. Anche solo un pezzetto. Se non fossi stato così timido, se avessi avuto il coraggio di chiederle anche solo di assaggiare le sue unghie, una ciocca di capelli, o di peli pubici, magari intrisi di urina, oggi Renèe sarebbe ancora viva”. Sono passati 35 anni, ma non per lui. La stessa lucida follia, lo stesso sguardo allucinato, quasi le stesse parole che mi disse nel lontano 1986, quando assieme ad un collega olandese riuscimmo ad intervistarlo poche settimane dopo la sua incredibile, ma legalmente inoppugnabile, liberazione. Oggi Issei Sagawa, il “cannibale” di Parigi, ha 65 anni, abita in un piccolo appartamento a Kawasaki, alla periferia di Tokyo, vive grazie ad un piccolo sussidio comunale e ai proventi delle interviste che ancora gli chiedono, nonostante abbia subito, tre anni fa, un lieve ictus. L’ultima è apparsa qualche settimana fa sul popolare settimanale Sunday Mainichi, che già a suo tempo aveva molto puntato sul suo caso (un loro giornalista riuscì ad intervistarlo sul volo che lo riportava in Giappone, dopo la sua controversa scarcerazione in Francia) e che ha deciso di inserirlo tra i cento protagonisti della storia giapponese del dopoguerra. Confesso che a leggere questa sua recente intervista non ho potuto fare a meno di ricordare quando lo incontrai a mia volta, lucido e perfettamente articolato, mentre raccontava, davanti alla madre che ci serviva il tè e ogni tanto lo rassicurava, gli agghiaccianti particolari della sua vicenda. Uno degli incontri – e delle esperienze – più inquietanti della mia vita professionale.
La storia di Issei Sagawa, giovane e viziato rampollo di una ricca famiglia giapponese, la potete facilmente trovare su Google e negli articoli dell’epoca. Ma la riassumo comunque brevemente. Nel 1981, a 28 anni, mentre era a Parigi per studiare letteratura francese, si invaghì di una collega olandese, tale Renèe Hartevelt. Tra i due nacque una sorta di amicizia, e la ragazza cominciò a frequentare l’appartamento di Sagawa: in cambio di “ripetizioni” di francese e di “declamazioni” dei classici, lui gli cucina delicati piatti giapponesi. Ma l’11 giugno qualcosa va storto: anche se non è mai stato chiaro come siano andate davvero le cose (c’è solo la testimonianza di Sagawa, che l’ha cambiata più di una volta) ad un certo punto il timido e “brutto” (come lui stesso si definisce ripetutamente) studente giapponese si “dichiara” a Renèe, che pare reagisca mettendosi a ridere e dicendo che è comunque già impegnata. In preda ad una follia che la perizia del medico francese definisce “improvvisa e dirompente, quanto probabilmente irripetibile” Sagawa le spara alla nuca con un fucile che il padre, un ricco imprenditore, gli aveva regalato e imposto di tenere in casa per la sua personale protezione. Dopodichè, coronando il “sogno della sua vita” la fa letteralmente a pezzi, affettando con cura alcune parti del corpo e congelandole nel freezer. Quando dopo qualche giorno la polizia bussa alla sua porta, grazie alla segnalazione di un tassista, ne ha già consumato circa sette chili. Durante i primi interrogatori, e pare sia stato questo uno degli elementi che portò poi a stabilirne l’infermità mentale e dunque il non luogo a procedere, chiede ripetutamente di poter continuare a mangiare il contenuto dei suoi preziosi “pacchetti”, rifiutando ogni altro cibo e precipitando in una lunga crisi depressiva quando gli comunicano che i suoi “pacchetti”, dopo averne analizzato il contenuto, sono stati gettati via.
La vicenda destò ovviamente grande scalpore sia in Francia che in Giappone. Ma in modo diverso. In Francia, dove i giornali parlano del “cannibale giapponese” si conclude relativamente presto: Sagawa viene dichiarato infermo di mente e rinchiuso in un ospedale psichiatrico, dove secondo i giudici locali sarebbe dovuto rimanere per un bel pezzo. Ma in Giappone, dove invece la stampa fin dall’inizio parla invece del “cannibale parigino”, la vicenda prende una piega diversa. Da un lato il padre, uomo con buone conoscenze politiche, riusce a far approvare a tempo di record dal Parlamento la legge per l’espiazione delle condanne nel paese di origine (accordo che anche l’Italia ha oggi con molti paesi, compreso il Giappone) dall’altro, grazie all’interesse di alcuni intellettuali come Inuhiko Komota e soprattutto Juro Kara, Issei Sagawa diviene un vero e proprio personaggio: dopo aver rilasciato alcune inquietanti interviste ed intrattenuto un lungo scambio epistolare con Juro Kara, pubblica infatti un libro, Kiri no naka (Nella Nebbia) che diventa un best seller.
Al suo rientro in Giappone, avvenuto dopo appena due anni grazie all’accordo giudiziario di cui si è detto sopra, è già una star: interviste, offerte di collaborazioni editoriali, perfino la proposta di insegnare la “sua” materia, antropofagia moderna, in una università locale. Quando viene dimesso dall’ospedale psichiatrico di Matsusawa, a Tokyo, a seguito di una nuova diagnosi che lo dichiara completamente guarito avendo oramai soddisfatto la sua atavica ossessione antropofagica, partecipa perfino ad una serie di talk show televisivi. Presto diventa però un sorta di fenomeno da baraccone: pur di apparire, e di guadagnar soldi, accetta di farsi fotografare accanto al corpo di una donna nuda impugnando forchetta e coltello o di partecipare a cortometraggi soft-porno ispirati alla sua vicenda.
Nel 1991, in occasione del decimo anniversario dell’omicidio, ha la faccia tosta di chiedere il passaporto ed il visto per l’Olanda: vuole andare a “pregare” sulla tomba della sua “amata” Renèe. Il governo giapponese, che inizialmente non sembra trovare nulla di strano ed emette il passaporto, glielo ritira dopo le comprensibili proteste della famiglia della povera ragazza e delle autorità olandesi, che ovviamente gli rifiutano il visto. Sagawa non se ne fa una ragione, e nel corso di una affollata conferenza stampa accusa l’Olanda di non rispettare le leggi internazionali ed il diritto al dolore e alla compassione. “E’ stato un momento molto difficile – confida al Sunday Mainichi Sagawa nell’ultima intervista – perché ho capito quanto l’Occidente, che ho sempre ammirato per il pensiero filosofico e politico che ha saputo esprimere nei secoli, sia in realtà molto ipocrita. Io sono un libero cittadino, non esiste nessuna legge che mi impedisca di andare sulla tomba di Renèe, a pregare. Perchè me lo hanno impedito?”.
Già, perchè? Trattandosi di un settimanale popolare, l’intervista contiene anche dei passaggi francamente grotteschi. “Sei davvero guarito? – chiede il giornalista – non hai più voglia di mangiare una donna?”. “Confesso di avere ancora degli istinti antropofagi – risponde pacato il “cannibale” – ma ho imparato a sopprimerli da quando ho capito che nella nostra società mangiare una persona è vietato. Anche perchè prima devi ucciderla. E non si deve uccidere una persona che ami”. Più che “guarito”, sembra rassegnato. Ricordo che quando lo intervistai io, trent’anni fa, ci tenne molto a smentire che, dopo aver ucciso Renèe e prima di farla a pezzi, l’avesse violentata, come avevano scritto molti giornali europei. Era furibondo, per questa “menzogna”. “Il cannibalismo è un atto supremo d’amore – mi spiegava – io ho ucciso Renèe per mangiarla, non per violentarla… Facendo l’amore, infatti, entri nel corpo dell’alta persona per pochi minuti. Mangiandola, la fai tua per sempre”. Sarà.