Società

Violenza: chi agisce un maltrattamento si può ritenere vittima?

Il bisogno di legittimare le proprie opinioni in termini di offesa o di sofferenza subita lega sempre più gli uomini alle offese stesse (…) “quello di cui ho bisogno” è definito nei termini di “quello che mi è stato negato”.

Questo passo preso da Autorità-subordinazione e insubordinazione: l’ambiguo vincolo tra il forte e il debole di Richard Sennett, critico letterario e scrittore statunitense, rende chiaro uno dei meccanismi più facili a verificarsi nelle relazioni, ancor più se sono rapporti in cui uno dei membri della coppia agisce un maltrattamento.
La legittimità di un pensiero implica che questo abbia un riconoscimento da parte dell’altro, se questo viene meno la persona avverte una mancanza che percepisce come un’offesa. Molti uomini autori di violenza, nelle loro relazioni, lamentano che la rabbia dalla quale nasce l’ aggressività viene generata da quel mancato riconoscimento.

Ricordo un uomo che, durante un colloquio, si definì come “aria che si sposta” in casa, aveva ormai talmente rovinato i legami familiari che moglie e figli lo evitavano, lui non sapeva come rispondere a questa invisibilità, se non utilizzando scoppi d’ira che potevano sfociare in calci e pugni. Dal suo racconto si evinceva come egli avesse attivamente contribuito, con una serie di comportamenti, a preparare il terreno per la sua ‘invisibilità’, ma, a sentirlo parlare, sembrava viversi realmente come una vittima e giustificava/spiegava il maltrattamento come la conseguenza del suo essere tale. L’uomo  si sentiva vittima, indipendentemente dal fatto che lo fosse o meno. Chi non ‘compatirebbe-capirebbe-assolverebbe’ un offeso? Chi non darebbe giustificazione della sua azione, se questa viene concepita come una re-azione, una risposta ad un torto?

Se mi considero vittima e mi proclamo tale, sono un qualcuno a cui è stato tolta voce, visibilità, ascolto, di conseguenza è più facile giustificare ogni mia azione, se non altro ai miei occhi, per quanto questa poi possa essere oggettivamente sbagliata (e nel caso del maltrattamento un reato). Lo status di vittima è uno stato sacro, nessuno è contro di essa, sono tutti in suo sostegno incondizionato (consiglio la lettura di Critica della vittima di Daniele Giglioli per un approfondimento sul tema). Nasce un rapporto quasi morboso con l’offesa stessa che si percepisce di aver ricevuto in quanto diventa un salvacondotto personale e talvolta anche relazionale e sociale. Il legame con l’offesa diventa prioritario rispetto al legame relazionale che viene così soggiogato e messo in secondo piano, potendo portare poi al maltrattamento o alla chiusura della relazione.

Si riesce a contattare più facilmente quello che non si ha rispetto a quello di cui si avrebbe necessità. La mancanza diventa testimonianza di quel che è dovuto, se mi manca qualcosa sono in credito, questo significa che qualcun altro è in debito, devo riscuotere, sono nel giusto. E’ un meccanismo perverso che non credo abbia a che fare solo nelle relazioni disfunzionali, anche se qui recano danni enormi, ma basti pensare a quando entriamo in conflitto con qualcuno, quanto vorremmo riconosciuto quel che sentiamo, il che è molto sano, ma la trappola è nella tentazione di vivere il non riconoscimento come un torto insanabile, pensando che l’altro intenzionalmente voglia offenderci, cosa anche possibile, ma non necessariamente sempre vera.

La mia sofferenza o quel che penso di aver subito è una benda sugli occhi, mi cancella l’altro, ci sono solo io. Riuscire a vedere l’altro o meglio non perderlo mai di vista (sono due cose diverse) credo che sia la sfida di ogni rapporto che voglia costruire un futuro privo di conflittualità violenta. La figura della vittima, se reale in tante situazioni, torna comunque comoda come status in tante altre.