Viviamo tempi nei quali l’ossimoro si erge a elemento fondante della nostra realtà aumentata: interi gruppi di efferati criminali annientano le memorie della plurimillenaria storia mesopotamica, il tutto mentre singoli ricercatori o gruppi di studiosi impegnano il proprio tempo nel tentativo di ricomporre quei mosaici i cui tasselli ci parlano in caratteri cuneiformi.

Così, mentre l’Isis fa scempio di millenari siti archeologici iracheni, in Inghilterra come in America esistono persone che, a ritroso e più o meno interpretativamente, tentano di riportare in vita l’antica musica babilonese. Fu inizialmente una ricercatrice della University of California, la Prof. Anne Draffkorn Kilmer, a decifrare alcune delle tavolette di terracotta rinvenute nei primi anni Cinquanta da un gruppo di archeologi francesi presso l’antica città di Ugarit, l’odierna Ras Shamra. Ben quindici anni di lavoro per giungere, con l’aiuto di alcuni colleghi, alla registrazione del disco Sounds from silence, il cui sottotitolo, decisamente evocativo, recita “the oldest song in the world”.

Musica dunque risalente al 1400 a.C. e suonata, in tempi moderni, sulla copia di una lira d’oro di Ur, strumento rinvenuto, assieme ad altri, negli scavi portati avanti tra il 1920 e il 1930 da Sir Charles Leonard Woolley presso l’antica città-stato di Ur. Ebbene, la musica che ascoltiamo in queste registrazioni solleva non poche domande, tutte legate e in qualche modo volte a mettere in discussione alcune delle convinzioni consolidatesi nel tempo a livello tanto accademico quanto divulgativo. Riprendendo le parole del musicologo Robert Fink, docente anch’egli presso la University of California: “Il brano (…) è scritto nell’equivalente di una scala diatonica maggiore [do, re, mi] (…) Questo evidenzia che tanto la scala diatonica di 7 note quanto l’armonia esistevano 3400 anni fa, andando contro il punto di vista della maggior parte dei musicologi per cui l’antica armonia praticamente non esisteva (…) e la scala non poteva essere anteriore agli antichi greci, 2000 anni fa”. Come poi suggerisce Richard Crocker, un altro dei ricercatori impegnati nel lavoro della Prof. Kilmer: “Questo ha rivoluzionato l’intera concezione circa le origini della musica occidentale”.

A riprendere il lavoro degli studiosi americani, portandolo certamente su un piano più divulgativo nonché artisticamente interpretativo, arriva oggi una giovane cantante e compositrice inglese, Stef Conner che, accompagnata anche lei da una copia della lira d’oro di Ur suonata dall’arpista Andy Lowings, ha inciso un intero disco di poesie e musiche provenienti dall’antica Babilonia, The Flood. Col lavoro della Conner, che si esibirà il 17 aprile presso l’Auditorium Lorenzo de’ Medici a Firenze, ci troviamo certamente su un livello molto più interpretativo e dunque personale: le melodie sono inventate di sana pianta dai due musicisti, ma questo sulla base di tutta una serie di studi pregressi che hanno preparato la registrazione dei brani. Ed è così che, in un modo come nell’altro, le antiche musiche delle origini della nostra civiltà tornano a noi come testimonianza del fatto che l’uomo non ha mai fatto a meno di celebrare i propri culti o le proprie ricorrenze, servendosi e adornandole grazie all’arte del suono.

Ma se tutto ciò risulta possibile grazie addirittura alla notazione su terracotta, cosa ne sarà invece di tutta quella musica che, nata in uno studio di registrazione, non è mai stata adeguatamente notata su carta? Dove finiranno alcune tra le più belle canzoni dei nostri tempi che, per un motivo o per l’altro, non verranno tramandate ai posteri in tutte le parti che le compongono? Anche qui la tecnologia giungerà in nostro aiuto o rappresenterà invece il principale fattore di rischio per la perdita delle nostre memorie sonore? Probabilmente è ancora presto per dirlo, ma questo è lo stesso interrogativo che si è posto l’attuale vicepresidente di Google, Vinton Cerf, che parlando di deserto digitale afferma: “Pensando a 1000, 3000 anni nel futuro, dobbiamo domandarci: come preserviamo tutti i bit di cui avremo bisogno per interpretare correttamente gli oggetti che abbiamo creato? (…) Nei secoli a venire chi si farà delle domande su di noi incontrerà delle enormi difficoltà, dal momento in cui la maggior parte di ciò che ci lasceremo dietro potrebbe essere solo bit non interpretabili”.

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