‘Discriminare’ significa dividere, operazione neutra dal punto di vista matematico, che può trasformarsi in un atto che mortifica l’intero genere umano. Pochi giorni fa a Garissa, in Kenya, uno sparuto gruppo di persone, armate fino ai denti, entra in un campus universitario e divide una comunità fino ad allora felicemente integrata, separando gli studenti mussulmani dai cristiani ed uccidendo barbaramente questi ultimi.
Non credo che quei giovani assassini disperati sapessero di ripetere, ancora una volta, un rito antico e umiliante, la separazione a scopo sacrificale. Molti anni prima, quando i giovani di al Shabaab non erano ancora nati, funzionari fascisti entrano nelle scuole italiane, armati del manifesto della razza, dividono i cattolici dagli ebrei ed espellono questi ultimi. Pochi anni dopo, in nome dell’appartenenza ad una razza superiore, il controllo dei documenti nelle strade, nelle case e nelle anagrafi, divide, deporta ed uccide persone ignare di appartenere ad una razza diversa.
Il senso di appartenenza è una prerogativa di tutti gli esseri viventi che condividono qualche aspetto comune, concreto o culturale. Prima ancora di un vincolo culturale, l’appartenenza è un vincolo biologico. Molti animali difendono il territorio e la loro prole, possono anche cacciare in gruppo, ma a scopo di sussistenza. Negli esseri umani i legami di appartenenza sono ubiquitari, complessi e necessari per costruire l’identità. Si basano essenzialmente su due sentimenti: un senso di inclusione, alleanza e complicità fra i membri del gruppo e un senso di diversità rispetto ai membri di altri gruppi. Questa miscela tende spesso a degenerare, trasformando una sana appartenenza, indispensabile per creare preziose diversità, in una ‘appartenenza branco’ che innesca una credenza tragicamente semplice e primitiva: noi siamo i buoni e gli altri sono i cattivi e per mettere a tacere i sensi di colpa, che uccidere un proprio conspecifico comporta, la nostra mente toglie al nemico lo statuto dell’essenza umana, lo ‘cosifica’ o lo rende simbolo del male.
Il paradosso della nostra epoca è che andiamo sempre più verso una società multietnica dove ogni persona è un nodo fra una molteplicità di appartenenze diverse. Forse il timore di questo cambiamento riattiva appartenenze tribali fanatiche e integraliste. Molti genocidi vengono commessi nell’inerzia, nella passività, o semplicemente nell’impotenza delle vittime e del contesto. Durante il nazifascismo l’informazione era assolutamente carente, solo alla fine della guerra è stato possibile mettere a fuoco l’intensità della barbarie. Oggi il pericolo è che l’eccesso d’informazione mediatica non si accompagni ad una partecipazione attiva e venga registrato nella mente con una sorta d’indignazione acquietante.
Al funerale di un mio amico cattolico, una famiglia del Bangladesh, al momento della comunione si è unita ai fedeli che prendono l’ostia consacrata. Alcuni hanno iniziato a guardarsi ed è cominciato il gioco dell’appartenenza: “Ma che c’entrano queste persone non cattoliche con il cerimoniale più profondo del cattolicesimo?” Alla fine della funzione, hanno pensato ad una forma di non rispetto, ma io propendo per la versione di quell’intelligente sacerdote che ha bacchettato i suoi parrocchiani: “Comunione significa condivisione, non importa la fede che si professa, mi è sembrato un gesto autentico di devozione e di vicinanza nei confronti del defunto.” Sia la famiglia del Bangladesh che il sacerdote hanno compiuto un piccolo, ma grande, gesto simbolico che mostra come a volte faccia bene identificarsi, anche attraverso i riti non propri, con le appartenenze altrui.