Cultura

Eduardo Galeano morto, scrisse i drammi del Sudamerica e la poesia del calcio

Si è spento a Montevideo, a 74 anni, autore di "Le vene aperte dell'America Latina", celebre "biografia" di un continente sfruttato e oppresso. Ma anche grande appassionato di football, a cui dedicò "Splendori e miserie del gioco del calcio". Il doppio esilio, dall'Uruguay e dall'Argentina, negli anni bui delle dittature militari

di Luca Pisapia

Eduardo Galeano non poteva che nascere e morire a Montevideo. Affacciato su quell’immenso porto dove per secoli schegge di varia umanità arrivavano da posti remoti o partivano verso terre lontane, quasi mai sostavano. Un crocevia di storie e leggende che sbarcavano dalle navi e si diffondevano nelle bettole della città in bocca a marinai e avventori, aristocratici e malfattori e poi per tutto l’Uruguay, piccola terra di poco più di tre milioni di abitanti tagliata in due dal Rio Negro. Non poteva che nascere e morire affacciato su quel porto dove un giorno, agli albori del ventesimo secolo, da una delle mille navi sbarca anche un professore di letteratura inglese, tale William Leslie Pool, che per primo porta il calcio in America Latina. E così Edoardo Galeano affamato di storie e di umanità, non ha potuto fare altro che mescolare quei racconti ai miti indigeni e al pallone, alla politica e all’economia, fino a diventare uno dei più importanti scrittori del Novecento.

Nato il 3 settembre 1940, si è spento a 74 anni. Dopo avere provato mille mestieri, Eduardo Galeano comincia a fare il giornalista in diversi quotidiani e periodici uruguagi, fino a che nel 1971 scrive Le vene aperte dell’America Latina, un saggio di economia politica sotto forma di racconti e reportage che indagano lo sfruttamento e la colonizzazione del continente dalla sua conquista, dedicato a una terra tanto oppressa quanto “condannata a una perpetua amnesia”. Due anni dopo, il colpo di stato fascista di Juan María Bordaberry, nato sulla guerra ai Tupamaros, obbliga Galeano all’esilio in Argentina. Ma anche qui dura poco, e l’ennesimo colpo di stato fascista del generale Jorge Rafael Videla lo fa rifugiare in Spagna. “Le vene aperte dell’America Latina” intanto è proibito in Uruguay, in Argentina e nel Cile del dittatore Augusto Pinochet. La dimostrazione che l’Operazione Condor messa in piedi dagli Stati Uniti altro non era che l’ennesima forma di colonizzazione e sfruttamento.

In Spagna Galeano scrive la trilogia della Memoria del fuoco, dove sono lavoratori e rivoluzionari, artisti e divinità, politici e militari, attori e calciatori realmente esistiti o meno, a raccontare la storia del continente dagli antichi miti pre-colombiani fino a Manoel Francisco dos Santos, meglio noto come Garrincha. Storie che partono dalla riscoperta di antiche radici per arrivare alla critica del capitalismo contemporaneo. Oltre all’impegno politico e letterario, come giornalista e appassionato di calcio segue Mondiali ed Europei scrivendo per varie testate, perché in fondo, amava ripetere: “Ci sono alcuni paesi e villaggi del Brasile che non hanno una chiesa, ma non ne esiste neanche uno senza un campo di calcio”. E una volta tornato in patria, nel 1997 pubblica Splendori e miserie del gioco del calcio, una serie di racconti in ordine cronologico, ispirati a personaggi e a partite leggendarie, visti dagli occhi di un innamorato, che sono la summa più alta del racconto calcistico.

Se a un certo punto è lui stesso, non certo a rinnegare ma a considerare superato il suo testo più famoso, “Le vene aperte dell’America Latina”, che resta uno dei seminali e più radicali manuali della ‘Teoria della dipendenza’, di lui restano decine di libri e racconti che sono la coscienza critica di un intero continente. E i suoi racconti sul calcio, inteso come il gioco più bello e quindi più maltrattato del mondo, innocente come può esserlo solo un bambino che rincorre una palla per strada e corrotto come può esserlo solo uno spettacolo in mano a multinazionali e dittature che lo sfruttano pro domo… loro, restano la più alta espressione poetica possibile applicabile al pallone, insieme all’opera di Osvaldo Soriano. “Come tutti gli uruguagi avrei voluto essere un calciatore. Giocavo benissimo, ero un fenomeno, ma soltanto di notte mentre dormivo. Durante il giorno ero il peggior scarpone che sia comparso nei campetti del mio paese”, ha scritto. Per questo durante il giorno è stato il più grande ascoltatore di quelle mille storie e leggende che da secoli s’incrociavano nel porto di Montevideo, aspettando solo di trovare qualcuno che avesse la sua capacità di raccontarle.

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