Pare che il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ami la pizza “carnivora“: pancetta, soppressata e salsiccia con salvia e finocchio. Un fatto è certo: quella pizza non viene dall’Italia. Su buona parte dei prodotti nostrani a base di salumi, infatti, vige un veto: non possono essere esportati negli Usa. E se le stesse aziende faticano a capire i motivi del blocco, anche allo stesso ministero della Salute le idee sembrano tutt’altro che chiare. Nell’intricata questione si intrecciano malattie del suino, regolamenti americani in materia di sicurezza alimentare, complicazioni burocratiche, due veti incrociati da parte delle autorità Usa. E così, le nostre pizze surgelate con salumi restano in Italia: un prodotto rappresentativo come pochi della nostra cucina non può viaggiare verso uno dei più importanti partner, anche a livello commerciale, del nostro Paese. Tutto questo accade nell’anno di Expo 2015, l’esposizione universale centrata sul cibo: quella che per l’industria alimentare italiana dovrebbe essere una vetrina, per molte aziende si rivela un’occasione mancata.
D’altra parte, questa situazione non è certo una novità. Gli imprenditori italiani non sono mai stati autorizzati ad esportare carne suina a bassa stagionatura, cioè meno di 400 giorni. In questa categoria rientra buona parte dei salumi, come pancetta, salame, culatello. Il motivo del blocco si trova nel Code of federal regulation (Codice di regolamentazione federale) americano: l’Italia è considerata non immune da due patologie animali, la peste suina africana, presente in Sardegna, e la malattia vescicolare del maiale, in Campania e Calabria. Al contrario, la gran parte degli altri Paesi europei, dalla Germania alla Francia, dalla Spagna alla Romania, sono ritenuti incontaminati e non hanno problemi ad esportare.
Ma uno spiraglio per il nostro Paese sembra essersi aperto nel maggio del 2013. In seguito anche a un lavoro diplomatico in questo senso, l’autorità sanitaria americana ha modificato il regolamento, riconoscendo una macroregione italiana immune alle malattie del suino. Nel dettaglio, di quest’area fanno parte Lombardia, Emilia Romagna, Veneto, Piemonte, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Marche, Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige: sostanzialmente, stiamo parlando del Nord Italia.
A questo punto, ci si aspetterebbe il via libera a esportare pizze con salumi, almeno da un parte del nostro Paese. “Dal maggio 2013 – si legge in una circolare del ministero della Salute, datata 23 dicembre 2014 – a seguito della modifica del regolamento Usa, è possibile l’esportazione di prodotti a base suina (es. pizze, sughi pronti, paste farcite) in cui gli ingredienti carnei sono presenti in quantità non prevalenti”. Una buona notizia? Non sembra proprio. Contattato da ilfattoquotidiano.it, l’ufficio esportazione di alimenti del ministero della Salute ha spiegato che “assolutamente non è mai stata consentita l’esportazione delle pizze con farcitura a base di carne; questa tipologia di prodotto non risponde ai requisiti del Code of federal regulation”. Ma neanche dopo la modifica del regolamento? “No. Le pizze surgelate con guarnizione a base di carne non possono essere esportate perché non rispettano la condizione di sterilità post letale“, è stata la risposta. Come spiega lo stesso ufficio ministeriale, questo significa che il salume, quando viene sconfezionato per preparare la pizza, perde le caratteristiche di sterilità che deve avere al momento dell’uscita dal salumificio e quindi è esposto ad una possibile ricontaminazione. Prosegue la circolare: “Per prodotto a base di carne, ai sensi della legislazione statunitense, si intende un alimento che contiene almeno il 2% di carni cotte o almeno il 3% di carni crude rispetto al peso complessivo del prodotto (es. pizze surgelate con salumi)”. E ancora, ecco la nuova versione dell’ufficio esportazione alimenti: “Il problema delle pizze è che non sono un prodotto a base di carne ma rientrano tra i cosidetti prodotti composti”. Insomma, il ministero smentisce per due volte se stesso.
A complicare il quadro, ci ha pensato un ulteriore blocco delle esportazioni di salumi, che di conseguenza si ripercuote anche sulle pizze surgelate, intervenuto solo pochi mesi dopo la nebulosa “apertura” del regolamento americano. “Per ora si tratta di un’apertura solo sulla carta – spiega Giorgio Rimoldi, dirigente di Aiipa, Associazione italiana industrie prodotti alimentari – E’ stata codificata una procedura, ma di fatto l’elenco degli stabilimenti autorizzati ad esportare negli Usa risulta bloccato: non c’è possibilità per le autorità italiane di inserire nuove aziende”. L’impasse è scattato nel settembre 2013: in alcune partite di prosciutto crudo provenienti dall’Italia, le autorità americane hanno riscontrato il batterio Listeria monocytogenes, presente in quantità tollerate dall’Unione europea, ma insufficienti per gli Usa. Il batterio incriminato è responsabile della listeriosi: il sito dell’Istituto superiore di sanità definisce questa patologia “particolarmente pericolosa per le persone immunodepresse, malati di cancro, diabete, Aids, le persone anziane, i neonati e le donne in gravidanza”. “Si tratta di circa otto positività su diverse migliaia di partite esportate, con una prevalenza pari alla prevalenza della malattia presente negli Usa”, precisano dal ministero della Salute. Ma tanto è bastato, le liste sono state bloccate: possono esportare salumi, solo dopo essersi sottoposti a controlli più severi, soltanto i 93 stabilimenti già autorizzati in passato. Che non comprendono produttori di pizze.
“Il ministero ha fatto tutto il possibile per superare l’impasse – spiega Davide Calderone, direttore di Assica, Associazione industriali delle carni e dei salumi – Riteniamo che l’approccio americano sia una copertura tecnica per portare avanti un blocco di tipo commerciale. Chiediamo un intervento di tipo politico”. Assica calcola che, per adeguarsi alle richieste degli Stati Uniti in materia di controlli sui salumi da esportare, le aziende italiane abbiano speso 6,2 milioni di euro, a partire dal settembre 2013. Il danno per il mancato export dei salumi a bassa stagionatura, stima ancora l’associazione, è invece di almeno 30 milioni di euro all’anno, nella fase di apertura del mercato.
Quanto durerà il blocco, non è dato sapersi. “Ad oggi – chiarisce ancora il ministero della Salute – è in corso di compilazione la risposta ad un questionario richiesto da Usda-Fsis (agenzia del Dipartimento dell’agricoltura americano, ndr) che dovrebbe definire la questione”. In attesa che la situazione si sblocchi, però, Expo 2015 è alle porte. Un grande spot per i nostri prodotti: i visitatori americani che apprezzeranno una pizza al salame, una volta tornati in patria, non vedranno l’ora di comprarne una. Magari tedesca, francese, spagnola.