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Yemen, restauratori italiani: “Noi, custodi del sogno di Pasolini, costretti alla fuga dalla guerra”

Renzo Ravagnan, 67 anni, responsabile dell’Istituto Veneto per i Beni Culturali, fino a un mese fa era a Sanaa, poi con la sua squadra di lavoro ha lasciato il Paese a causa dell'inasprirsi della guerra civile: "Stavamo sistemando la moschea di Sana'a, per la quale eravamo in dirittura d’arrivo coi lavori, e la moschea di Al-Ahrafiyya a Taiz. Questa volta siamo fuggiti, non potevamo più restare: spari e bombe erano a duecento metri da noi". Nel 1971 l'intellettuale friulnao aveva girato un cortometraggio con cui chiedeva all'Unesco di salvare le mura della capitale dall'urbanizzazione selvaggia

di Davide Turrini

“Spari e bombe erano a duecento metri da noi, vicino al palazzo presidenziale di Sana’a. Questa volta siamo fuggiti, non potevamo più restare”. E’ Renzo Ravagnan, 67 anni, responsabile dell’Istituto Veneto per i Beni Culturali, che racconta la sua storia di fuga dallo Yemen, assieme ad una decina di colleghi italiani, poco più di un mese fa dopo il colpo di stato dei ribelli sciiti Houthi. Lui che da più di 10 anni ha costruito un vero e proprio laboratorio di restauro e conservazione in quell’antico centro città della capitale yemenita che Pier Paolo Pasolini nel 1971 volle difendere dalla furia distruttrice della speculazione edilizia di matrice “modernista”.

“Il mio istituto collabora con il ministero della cultura yemenita da oltre 10 anni e in tutto questo tempo ha già formato più di 100 giovani del luogo per la conservazione dei beni culturali”, spiega l’architetto Ravagnan al IlFattoQuotidiano.it. “Stavamo sistemando nello specifico la moschea di Sana’a, per la quale eravamo in dirittura d’arrivo coi lavori, e la moschea di Al-Ahrafiyya a Taiz nel sud dello Yemen. Pensavamo di completare l’opera entro il prossimo ramadan, entro giugno-luglio 2015, ma la situazione è precipitata e siamo tornati in Italia”. Un allarme già suonato diverse volte negli ultimi anni per Ravagnan e i dipendenti dell’Istituto: “Avevamo già sospeso i lavori per motivi di sicurezza nel 2008 e 2010 e l’ambasciata italiana aveva già dimostrato più volte la sua contrarietà alla nostra presenza lì, ma in accordo con il governo yemenita siamo andati avanti. Fino a quando ci siamo ritrovati dentro alla moschea a lavorare in attesa della visita del primo ministro e all’improvviso abbiamo capito che truppe armate stavano assalendo il palazzo presidenziale. Il nostro team di lavoro ha saputo affrontare anche situazioni più difficili, ma non potevamo continuare”.

Troppo affascinante quel luogo, impossibile staccarsi da un contesto storico-architettonico che mozza il fiato, proprio come accadde per Pasolini più di 40 anni fa: “Il grosso del lavoro è nel centro di Sana’a. Si tratta di 8mila abitazioni e torri antichissime, sviluppate su più piani, composte da vecchi mattoni cotti al sole, che però non vengono mantenute a dovere e che tra fuga dal centro dei nuovi ricchi, proprio come in Occidente, degrado e incuria del tempo, rischiano di crollare”. Un preziosissimo patrimonio composto anche dalle due moschee in cui l’Istituto di Ravagnan stava lavorando nell’ultimo periodo: quella di Sana’a, arricchita da decorazioni antichissime, risalente al 630 d.c. e che durante il suo restauro ha fatto riemergere sostegni in legno del primo e secondo secolo d.c. “Abbiamo cercato di mettere in pratica il sogno di Pasolini – continua Ravagnan – visto che siamo rimasti lì molto tempo abbiamo cercato di creare una struttura stabile, aiutando i cosiddetti “usta” (tradizionali artigiani/muratori yemeniti ndr) e formando nuovo personale, soprattutto donne. Dal nostro sito www.tarmim.org abbiamo lanciato anche un appello all’Unesco e alle ambasciate arabe, proprio come fece Pasolini, cercando di raccogliere fondi che permettano di proseguire in questo importantissimo atto di conservazione della storia del mondo”.

L’Istituto Veneto per i Beni Culturali ha sede a Venezia e si è già occupato di restaurare e conservare anche altri patrimoni storico-architettonici come la spianata delle moschee in terra santa dal 1997 fino al 2009: “A Sana’a e nello Yemen ci sono persone straordinarie che hanno il desiderio di acquisire conoscenze e conservarle. Lo scoramento della nostra fuga da lì è ancora vivo. Simbolicamente abbiamo però deciso di tenere viva la speranza per il futuro, tenendo provvisoriamente aperto il nostro ufficio con due nostri collaboratori del luogo. Credetemi gli yemeniti non vogliono la guerra. Anche se la componente zaydita dei ribelli corrisponde ad una larga fetta di popolazione, almeno il 40%, lo Yemen sta vivendo gli effetti di uno scontro geopolitico che va ben oltre i suoi confini. E’ auspicabile che tutte le componenti politiche e militari si siedano attorno ad un tavolo per siglare una nuova pace”.

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