A Bologna si torna a votare alla fine di un lungo ciclo, iniziato da Cofferati nel 2003 dopo l’intermezzo Guazzalochiano e terminato con Merola che è sì al primo mandato ma alle prese con gli imprevisti di una congiuntura politica che non gli è molto favorevole, come si evince dai puntuali resoconti della solerte stampa locale sulla faida in corso tra Partito e sindaco, un film già visto. E’ stato un periodo certamente non aureo, in primo luogo per gli effetti della crisi economica che ha ‘picchiato duro’ a Bologna, non meno che da altre parti d’Italia e d’Europa. Non dimentichiamo che prima della crisi in Emilia Romagna gli indicatori segnavano bel tempo stabile soprattutto in quanto a occupazione. Anche se gli ‘scricchiolii’ nel sistema produttivo si avvertivano, per le poche orecchie attente, anche prima del 2008.

L’intensa crescita, nei precedenti due decenni di una città terziaria ‘non avanzata’, fondata su commercio e mattone, aveva nascosto l’indebolimento dell’apparato industriale, messo in parte in discussione dalla caduta del mercato interno e dall’intrinseca debolezza del frammentato sistema produttivo, costituito da centinaia di piccole aziende manifatturiere, non attrezzate a fronteggiare le trasformazioni necessarie alla nuova competizione globale. Bologna, nel frattempo divenuta città metropolitana per legge ma non nello spirito, ha continuato nel suo ‘tran-tran’, in una situazione di sostanziale galleggiamento politico e stallo programmatico.

Si potrebbe definire l’attuale, un governo del non-progetto, intendendosi per questo l’assenza di una visione e di una strategia che proiettino la città nel futuro; ora si affacciano alcuni circoscritti progetti. ‘F.i.co.’ di cui soprattutto si decantano le virtù, potrebbe essere una sorta di Disney world dell’agroalimentare, indirizzata al consumo finale, quindi ancora prevalentemente al commercio. Poco invece si fa per la cultura e l’arte che potrebbero essere una leva di sviluppo nella città dove vivono decine di migliaia di giovani, intellettuali e artisti e c’è una vastissima produzione dal basso non valorizzata. Le sette città del Piano urbanistico comunale (si badi bene non metropolitano) sono un disegno concettuale di divisione territoriale e funzionale, sicuramente suggestivo ma non indicano un processo di trasformazione; s’individuano essenzialmente sette ripartizioni (città della ferrovia, della tangenziale, della collina, del Reno, della via Emilia est, della via Emilia ovest).

I poli principali, restano la Fiera (in affanno), l’aeroporto e la ferrovia per la centralità di Bologna come asse di collegamento di rilevanza nazionale, le attività commerciali, di servizi e le attività finanziarie, università e ospedali. Sono però tutti collocati nell’area urbana, grandi attrattori di utenze e nello stesso tempo causa di congestione. Uno dei grandi poli di riqualificazione potrebbe essere il centro storico, vero unicum nel suo genere per le dimensioni e per i gioielli architettonici ed artistici che contiene ma essendo destinato prevalentemente al commercio soffre di congestione e non è attrezzato per il turismo. Basta pensare che ancora oggi non ci sono bagni pubblici, non ci sono panchine non ci sono alberi e l’unico modo per sedersi è andare in un bar o sulle scale di San Petronio (ora non è nemmeno più permesso) mentre l’offerta alberghiera non è attrezzata per un turismo moderno nel rapporto qualità/prezzo.

La vera trasformazione di Bologna potrebbe essere, diventare davvero una città metropolitana che non è certo stata realizzata con la soppressione della provincia, un atto meramente burocratico. Non esiste un piano di sviluppo della nuova città metropolitana, restano gli strumenti di pianificazione della vecchia provincia che svolgevano una funzione ancillare rispetto alla città che si pianificava autonomamente.

L’architrave delle nuova identità metropolitana dovrebbe essere costituito dal sistema della mobilità, quello sì in grado di determinare l’integrazione delle diverse parti del territorio, un sistema di mobilità fondato in primo luogo sui trasporti collettivi e secondariamente sulla rete stradale: esattamente il contrario di ciò che avviene, perché la principale scelta-ossessione degli amministratori è la realizzazione di nuove strade e di infrastrutture che impieghino la massima quantità possibile di cemento armato. I risultati delle recenti elezioni regionali che hanno visto l’astensione raggiungere la percentuale del 40%, sono già un ricordo sbiadito; nessuno riflette sulle cause di quel comportamento degli elettori determinato da forte delusione e disillusione, probabilmente facendo i conti che si può vincere anche con una percentuale inferiore.

Alla fine si prefigura una società comandata da un’élite di mediocri prescelti, votata da una minoranza di elettori, insofferente a qualsiasi critica e dialettica democratica. E’ uno scenario che nemmeno dieci anni fa avremmo definito orwelliano ma è ciò che esattamente pensa una parte non piccola della classe politica al potere. Ecco perché le elezioni di Bologna non saranno un passaggio indolore: questa città rappresenta nel bene e nel male il termometro di ciò che la sinistra è nel Paese. Sarebbe sommamente necessario che le forze più significative del mondo del lavoro, della cultura, della società civile, dei movimenti, della sinistra storica e popolare, si unissero come sta avvenendo in altre parti d’Europa per dar luogo ad un’ampia ‘coalizione del cambiamento’ che potrebbe avere qui un battesimo importante. E’ lecito dubitare che ciò possa accadere, guardando alle esperienze precedenti ma in politica mai dire mai.

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