Le molte inesattezze che stanno circolando dopo la decisione di ieri della Corte europea di Strasburgo sul “caso Contrada” impongono alcune precisazioni. Basta leggere le sentenze che riguardano il dott. Contrada per constatare che l’azione penale è stata intrapresa esclusivamente sulla base di fatti gravissimi, concreti e specifici; e che sono questi stessi fatti – supportati da prove imponenti – che hanno portato alla condanna dell’imputato in tre gradi di giudizio.
Ora, Strasburgo non pone minimamente in discussione né i fatti né la ricostruzione che i giudici italiani ne hanno dato. E se i fatti e le prove su cui si basa la condanna non sono contestati, appare singolare sostenere poi – con Strasburgo – che non si sarebbe dovuto condannare perché in pratica l’imputato non poteva sapere cosa stava facendo (in quanto l’infrazione non sarebbe stata sufficientemente chiara e prevedibile; e la pena eventuale non conoscibile). E ciò perché vi sarebbero state oscillazioni giurisprudenziali che (all’epoca dei fatti addebitati al dott. Contrada) avrebbero reso il concorso esterno non applicabile alla contiguità mafiosa.
La tesi non convince, posto che il concorso esterno compare addirittura in sentenze della Corte di Cassazione risalenti all‘800 ed è poi stato ripreso in molte altre successive (che non sono un fuor d’opera rispetto alla mafia quando trattano di cospirazione politica o terrorismo, perché si tratta pur sempre, ontologicamente, di associazioni criminali e di partecipazione esterna, per cui la struttura è identica e i precedenti ci sono). In realtà, le oscillazioni giurisprudenziali sono sopravvenute successivamente, ben dopo i fatti contestati al dott. Contrada, e cioè a partire dal 1991: quando l’introduzione della speciale aggravante mafiosa ha dato luogo al c.d. “favoreggiamento mafioso”, a fronte del quale si è ipotizzato che non potesse esservi più spazio autonomo per il concorso esterno, in quanto assorbito dal favoreggiamento. Quindi, il contrario di quel che ha scritto Strasburgo.
La sensazione è che (con tutto il rispetto per Strasburgo) vi sia stata una eccessiva semplificazione delle complesse questioni di mafia. Complessità ben chiara a tutti coloro che si sono occupati della materia. A partire dal pool di Falcone, che fece ampio ricorso alla figura del concorso esterno, come dimostra per esempio un passo della sentenza-ordinanza conclusiva del maxi-processo “ter” (17 luglio 1987): “Manifestazioni di connivenza e di collusione da parte di persone inserite nelle pubbliche istituzioni possono – eventualmente – realizzare condotte di fiancheggiamento del potere mafioso, tanto più pericolose quanto più subdole e striscianti, sussumibili – a titolo concorsuale – nel delitto di associazione mafiosa. Ed è proprio questa ‘convergenza di interessi’ col potere mafioso… che costituisce una delle cause maggiormente rilevanti della crescita di Cosa nostra e della sua natura di contropotere, nonché, correlativamente, delle difficoltà incontrate nel reprimerne le manifestazioni criminali”.
Chiave di lettura in materia di concorso esterno sono dunque le parole “condotte di fiancheggiamento subdole e striscianti”. Ma ciò che è subdolo e strisciante non può per sua natura essere definito con la facilità con cui si beve un bicchier d’acqua. E alcune (pretese) oscillazioni della giurisprudenza possono corrispondere ad una realtà – il concorso esterno – comunque esistente e operante, nonostante la variabilità (subdola e strisciante) delle sue possibili configurazioni.
Per certi profili, Strasburgo ricorda la criticatissima sentenza della Cassazione italiana sulla prescrizione Eternit. Anche nel caso di Strasburgo si potrebbe pensare che è difficile, forse impossibile, liberarsi dalla sensazione che i giudici abbiano deciso rimanendo esclusivamente nel perimetro delle “carte”, considerate asetticamente e soppesate con criteri burocratico-formalistici. Senza poter percepire e tenere in conto anche la realtà concreta della mafia in tutte le sue articolazioni. Forse è proprio l’assenza di questo contatto con la realtà che non ha indirizzato Strasburgo verso una decisione capace di affermare un diritto che non contrasti con la giustizia.
E poi, i giudici italiani non ignorano il principio di legalità (nessuno può essere condannato per una azione od omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato), su cui Strasburgo fonda la sua pronunzia richiamando l’art.7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo: perché si tratta dello stesso identico principio scolpito nell’art.25 della nostra Costituzione e nell’art.1 del codice penale. Impossibile quindi che una ventina circa di magistrati italiani se lo siano tutti dimenticato. Tanto più che Strasburgo sembra essere caduta in un equivoco, perché (ammesso e non concesso che il concorso esterno non fosse configurabile) si sarebbe dovuto comunque condannare per il delitto di favoreggiamento della mafia, sicché le gravi condotte del dott. Contrada mai sarebbero potute andare esenti da pena.
E questo il dott. Contrada, come qualunque altro cittadino italiano, lo sapeva bene.
di Gian Carlo Caselli e Antonio Ingroia
Il Fatto Quotidiano, 15 aprile 2015