“Io di destra? No, ho votato Pd“. Travolto dalle polemiche e dalla minaccia di sanzioni disciplinari per il post su Facebook in cui rivendicava il proprio operato nel blitz alla scuola Diaz al G8 di Genova, il poliziotto Fabio Tortosa precisa il suo pensiero alla Zanzara di Radio24. E in un’altra intervista a Fanpage.it entra nel merito delle conseguenze del suo post. “Stupidamente non prevedevo che l’interpretazione fosse questa che ha suscitato tutto questo clamore. Col senno di poi capisco che possa essere stata male interpretata”.
Ai microfoni della Zanzara, Tortosa continua a definire “ineccepibile” l’azione che per la Corte europea dei diritti umani ha rappresentato un atto di “tortura“. “Torture? Non lo so, io non le ho viste – ha affermato – altrimenti sarei intervenuto. Ma so che il numero dei refertati è incongruo con il numero di persone fermate dal VII nucleo”, l’unità di élite del Reparto mobile di Roma creata appositamente per il G8 di Genova e chiamata, la notte del 21 luglio 2001, a sfondare gli ingressi della scuola per consentirne la “perquisizione”. “I feriti erano di più. Ho assistito a tutta l’operazione, non abbiamo ferito le persone come poi è venuto fuori. Noi con le violenze non c’entriamo, non abbiamo spaccato le teste”.
Le precisazioni di Tortosa si inseriscono nell’eterno rimpallo di responsabilità interno alla polizia riguardo al blitz che proprio il comandante del VII Nucleo, Michelangelo Fournier, definì davanti ai pm di Genova “una macelleria messicana“, descrivendo “colluttazioni unilaterali” ai danni di manifestanti inermi, pestaggi gratuti a persone già ferite e persino un agente che “simulava il coito” davanti a una ragazza esanime a terra. Nella scuola, ribadisce Tortosa, c’erano molti poliziotti anche in borghese ma “gli unici identificabili eravamo noi e servivano dei responsabili”.
Per la verità, le sentenze del processo Diaz sanciscono che a picchiare furono appartenenti a diversi corpi di polizia. Tant’è che furono condannati per lesioni anche gli otto capisquadra del VII nucleo, che poi la Cassazione dichiarò prescritti nella sentenza defintiva del 5 luglio 2012. Resta un fatto: al sanguinoso blitz nella scuola erano presenti centinaia di pubblici ufficiali, ma nessuno di loro, compreso Tortosa che finì nel registro degli indagati con altri 90 colleghi e fu poi archiviato, ha mai fornito ai magistrati alcun elemento utile a individuare i singoli autori di quei pestaggi che i “celerini” del VII Nucleo hanno sempre attribuito ad altri non meglio specificati colleghi. In un comunicato successivo al post, a nome del Consap, sindacato di polizia di cui è dirigente, ribadisce la tesi della verità nascosta (ribadita anche in un libro da Vincenzo Canterini, all’epoca comandante del Reparto mobile di Roma, e condannato al processo Diaz): “Chi c’era sa che è venuta fuori solo una parte della verità. Crediamo che questa voglia di verità debba albergare anche nelle alte sfere, non solo in me, nei miei colleghi che erano con me e nelle vittime alle quali va tutta la mia solidarietà”.
Ricostruendo l’irruzione, Tortosa ha raccontato: “Il cancello della Diaz era chiuso, lo abbiamo forzato e poi abbiamo forzato il portone d’ingresso. Nessuno dormiva, hanno raccontato bugie. Abbiamo trovato una resistenza dentro la scuola, già dalle finestre piovevano degli oggetti. Obiettivo era partire da ultimo piano e portare tutti i fermati all’interno della palestra, un’operazione durata meno di sei minuti. Poi ci hanno ordinato di uscire”. Dei 93 “no global” arrestati, oltre 60 risultarono ferite, almeno due in modo molto grave, e molti presentavano le contusioni alle braccia (o fratture, come il 62enne Arnaldo Cestaro, dal cui ricorso è originata la sentenza di Strasburgo) tipich di chi cerca di parare le manganellate. “Abbiamo usato il manganello, certo – ha detto ancora – ma all’interno delle regole. E per sconfiggere la resistenza, fermare le persone e radunare i 93 occupanti nella palestra. Poi per l’identificazione sono rimasti altri agenti per un’ora dentro la Diaz”.
“Non mi pento di nulla – ribadisce dunque il poliziotto – non ho commesso reati. Non ho partecipato a nessun pestaggio, non ho spaccato teste, c’erano altri poliziotti dentro la Diaz. Ma a quelli del mio reparto hanno dato il marchio dei torturatori”. C’erano altri agenti che non appartenevano al vostro nucleo, chiedono i conduttori Giuseppe Cruciani e David Parenzo. “Sì, era pieno. In borghese oppure con i fratini della Polizia. Armati in situazione di ordine pubblico”.
Tortosa ha anche spiegato perché ha scritto “Carlo Giuliani fa schifo e fa schifo anche ai vermi sottoterra”. “Noi – ha detto – siamo stati trattati come torturatori e colpevolizzati, mentre vedo che intitolano un’aula della Camera a Carlo Giuliani. E’ uscita fuori la pancia. Di questo mi posso scusare, ma bisogna tenere conto di quello che abbiamo passato”.
Proprio oggi Giuliano Giuliani, padre di Carlo, in una lettera aperta chiede al presidente della Repubblica Sergio Mattarella se non ritenga di dover “chiedere scusa a Carlo in nome dello Stato” per le “offese insopportabili” rivolte a suo figlio da un agente di polizia di Stato. “Concorderà con me, Esimio Presidente – scrive Giuliani – che un agente in servizio è un rappresentante dello Stato. Da qui la domanda che mi permetto di rivolgerLe non ritiene che Lei dovrebbe chiedere scusa a Carlo in nome dello Stato?”.
Intanto su change.org Camilla Di Falco, studentessa bolognese, ha lanciato una petizione che chiede al ministro dell’Interno, Angelino Alfano, e il capo della polizia, Alessandro Pansa, “prendano provvedimenti disciplicari contro Fabio Tortosa”, l’agente nella bufera per le sue parole su Facebook.