Quarant’anni fa nasceva Clic, il quarto disco della decade sperimentale di Franco Battiato. Dieci anni di continue e incessanti sperimentazioni, di ricerca e studio sia in ambito popular che in quello delle avanguardie colte: dieci anni esattamente spaccati a metà dal disco che Battiato dedicò all’amico e maestro Karlheinz Stockhausen, Clic (1975). Potremmo infatti immaginare una sorta di piccolo ponticello che congiunge due lembi di terra: da una parte, diciamo a sinistra, si stagliano praterie di pop-progressive (definizione già approvata dallo stesso Battiato), mentre dall’altra, a destra, contorti sentieri di ricerche avanguardiste conducono, abbastanza sorprendentemente, all’Era del Cinghiale Bianco (1979).
Un disco, Clic, a perfetta metà strada tra le sperimentazioni dei primi tre album elettronici e quelle dei successivi quattro; un disco che raccoglie e sintetizza sia quell’attenzione alla sfera della comunicazione, tipica dei precedenti tre album, che l’approccio più cerebrale e intimista, proprio delle avanguardie colte, dei successivi M.elle le ‘Gladiator’, Battiato, Juke box e L’Egitto prima delle sabbie. Disco, quest’ultimo, vincitore del Premio Stockhausen di musica contemporanea del 1978 e stranamente antecedente la successiva virata pop dell’album L’Era del Cinghiale Bianco. Clic dunque, un disco nel quale il sintetizzatore, quello strumento che Berio non considerava tale e al quale invece Battiato si affezionòcosì tanto da dedicarvi buona parte della sua carriera musicale, compare, relativamente alla sola decade sperimentale, per l’ultima volta, sostituito nei successivi quattro album dai soli strumenti acustici.
Clic, quell’album nel quale la voce dell’autore, onnipresente nei precedenti tre lavori elettronici, echeggia, quasi prossima all’esilio, in un unico brano (No U Turn), per poi scomparire anch’essa, completamente, nei successivi lavori. Clic, quell’album nel quale l’autore catanese ha fatto proprie tutte le spinte progressiste dell’epoca, tanto di matrice colta quanto d’ambito popular, ma dove “le corrispondenze non sono dirette, tutto il materiale musicale è analizzato e filtrato. Battiato apprende la lezione e la fa sua con il risultato di esprimere solo se stesso e quello che sente di avere alle spalle”, come scrive Annino La Posta nel suo Franco Battiato: soprattutto il silenzio.
Un disco col quale l’autore si allontana definitivamente dalla forma per esplorare mondi sonori fino ad allora sconosciuti, specie per un certo tipo di pubblico; un disco nel quale, come fanno notare sia Fausto Bisantis che Franco Pulcini, si fa quasi ossessiva la tendenza a riempire totalmente gli spazi sonori, a non lasciare spazi aperti; un disco, infine, nel quale l’unico testo presente, cantato dallo stesso Battiato, narra della crisi esistenziale di cui l’autore fu appena due anni prima protagonista:”Per conoscere me e le mie verità, io ho combattuto fantasmi di angosce con perdite d’io; per distruggere vecchie realtà, ho galleggiato su mari d’irrazionalità; ho dormito per non morire, buttando i miei miti di carta su cieli di schizofrenia”. Poche parole, significative, poche tracce verbali nel bel mezzo di un oceano eminentemente musicale, in un disco che ancora oggi risulta essere più che attuale.