Un team di ricercatori statunitensi della Duke University School of Medicine ha, infatti, scoperto che la comparsa dei primi segni della patologia coincide con alcune modifiche in particolari cellule immunitarie del cervello
È un periodo ricco di novità nel campo della ricerca sull’Alzheimer. È di appena alcune settimane fa la conferma dell’individuazione di una molecola in grado di frenare la progressione della malattia, e della realizzazione di un nuovo test per la diagnosi precoce da una biopsia della pelle. Adesso, dagli Usa arriva la notizia della scoperta della possibile causa principale della malattia neurodegenerativa. Un ruolo decisivo sarebbe svolto dal sistema immunitario.
Un team di ricercatori statunitensi della Duke University School of Medicine ha, infatti, scoperto che la comparsa dei primi segni della patologia coincide con alcune modifiche in particolari cellule immunitarie del cervello. Queste cellule, denominate microglia, iniziano a consumare dosi elevate di un nutriente, l’amminoacido arginina, fondamentale per il buon funzionamento della memoria. Lo studio, pubblicato sul “Journal of Neuroscience”, dimostra che, bloccando il consumo eccessivo di arginina attraverso un inibitore enzimatico chiamato “difluorometilornitina” (Dfmo), si riduce nei topolini di laboratorio il numero delle cosiddette placche amiloidi, fibrille proteiche il cui accumulo è responsabile della progressiva degenerazione delle cellule nervose tipica dell’Alzheimer.
L’Alzheimer è la più comune forma di demenza senile. In base ai dati dell’Alzheimer’s disease international (Adi) – la federazione internazionale legata all’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) che riunisce le associazioni che si occupano della patologia -, messi nero su bianco nel documento “L’impatto globale della demenza 2013-2050”, la malattia colpisce nel mondo più di 25 milioni di persone, soprattutto anziani sopra i 65 anni di età, in prevalenza donne. Una cifra destinata a triplicare entro il 2030, toccando i 76 milioni di casi, secondo le previsioni dell’Adi. Solo rispetto al 2005, ad esempio, i casi di Alzheimer e demenza, secondo le stime del World Alzheimer report 2014, sono cresciuti del 50%, fino a superare la cifra di 600mila malati. La ricerca americana rappresenta una speranza in più per tutti questi pazienti.
Il prossimo passo degli scienziati Usa sarà, adesso, sperimentare la molecola di Dfmo, finora adoperata in test clinici contro il cancro, come possibile farmaco per l’Alzheimer. “Il nostro studio apre le porte a un modo completamente diverso di pensare l’Alzheimer – spiega Carol Colton, tra gli autori della ricerca -. Se riuscissimo a confermare anche negli uomini che il consumo di arginina gioca un ruolo così importante nel processo degenerativo, forse – conclude la studiosa – potremmo bloccarlo, ed invertire in questo modo il corso della malattia”.