Se la malattia è lunga il reintegro non è scontato. Il governo non l’ha previsto. Il contratto a tutele crescenti, introdotto dal 7 di marzo con il Jobs Act, ha infatti omesso di regolamentare il licenziamento illegittimo per superamento del cosiddetto “comporto”, cioè il periodo di malattia o di infortunio che ha un termine regolato dai contratti collettivi normalmente pari a 180 giorni, sei mesi. L’art. 2 comma 4 del decreto 23/2015 fa salva la previsione di reintegro in caso di disabilità fisica o psichica del lavoratore. Ma nulla dice sulla malattia prolungata, lasciando il dubbio che il licenziamento durante il periodo di comporto non sia nullo e privo di effetti, portando direttamente al reintegro del lavoratore, ma “illegittimo”. E come tale sanzionato con il solo indennizzo economico: due mensilità di retribuzione per ogni anno di anzianità di servizio con un minimo di quattro e un massimo di due anni di retribuzione. Nelle aziende piccole il lavoratore potrà chiedere una mensilità di retribuzione per ogni anno di anzianità con un minimo di due e un massimo di sei mensilità. Il testo lascia dunque spazio all’orientamento più favorevole alle imprese subito sposato da Il Sole 24 Ore, il quotidiano degli imprenditori.
La materia è delicata e scivolosa, anche politicamente. Matteo Renzi ha sempre sostenuto di introdurre modernità e flessibilità nel mercato del lavoro ma “non a scapito delle tutele”. Non ultimo, si è impegnato a spendere il “tesoretto” spuntato dal Documento di economia e finanza per il welfare. Sostituire ora il reintegro del malato con un indennizzo farebbe cadere tutto il castello sulla testa dei più deboli, i dipendenti alle prese con gravi e persistenti problemi di salute. In ballo, tanto per esser chiari, ci sono diritti costituzionalmente garantiti. Per questo, probabilmente, il governo che sognava di applicare la tutela risarcitoria a tutti i casi di licenziamento illegittimo, salvo quello discriminatorio, si è fermato a un miglio dalla meta. E tuttavia ha deciso di non decidere, animando così le speranze degli imprenditori che chiedono mano libera, evocando magari la patologia dei certificati medici strumentali.
I tentennamenti del governo in materia di salute finiscono per produrre misure contraddittorie tra loro. Il 20 febbraio, ad esempio, il Consiglio dei ministri dava il via libera in seconda lettura al contratto a tutele crescenti, quello che crea la zona d’ombra sulla malattia prolungata. Lo stesso giorno però approvava in prima un testo organico sulle tipologie contrattuali (ora all’attenzione del Parlamento) che contiene una norma di segno contrario: prevede di estendere le tutele della legge Biagi riconoscendo il diritto al part-time a tutti i malati e non più solo agli affetti da tumore. Ma il colpo al cerchio rischia d’esser coperto da quello alla botte, neutralizzandone gli effetti positivi.
Chi segue l’evolversi della materia auspica un intervento normativo riparatore prima ancora che siano i giudici a colmare questo vuoto. Se lo augura, ad esempio, il giuslavorista Michele Tiraboschi. Autore di un recentissimo lavoro sulle malattie croniche e il welfare (scarica), lo studioso ritiene che il “tema del comporto e delle malattie lunghe diventerà centrale nei prossimi anni. Non è una cosa di dettaglio o da lasciare all’interpretazione caso per caso da parte dei giudici”. Dalle prefigurazioni statistiche del suo studio emergono infatti le controindicazioni all’allungamento dell’età lavorativa preteso dal legislatore: entro 10 anni l’età media dei lavoratori impiegati in Italia sarà sopra i 50 anni, uno su due soffrirà di malattie croniche (obesità, problemi caridiovascolari, tumori, disturbi mentali…). L’interpretazione “estensiva” del licenziamento all’ambito della salute potrebbe avere dunque impatti devastanti su strati di popolazione sempre più larghi.
Va anche detto che non è la prima volta che il legislatore interviene sulla materia lasciandosi dietro una voragine, un buco nero che innesca motivate ragioni di apprensione. Tre anni fa è stata la volta della legge n. 92/2012, la cosiddetta Riforma Fornero, che ha ridotto in modo sensibile l’applicazione dell’articolo 18 anche nel caso dei licenziamenti per motivi economici. La riforma non chiariva se anche il presunto superamento del periodo di comporto di malattia rientrasse nel giustificato motivo. A fare chiarezza, a distanza di sei mesi, intervenne poi una circolare del ministero del Lavoro (n. 3 del 16 gennaio 2013) che ribadì la validità dell’art. 2110 c.c “la cui violazione, peraltro, trova una specifica tutela nell’ambito del riformulato art.18 della L. 300/1970″.
Dove “tutela” sta per riformulazione della sanzione. Il riformato articolo 18 dello Statuto – tutt’ora applicabile ai dipendenti assunti prima dell’entrata in vigore delle tutele crescenti –prevede ancora la sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro, oltre a un’indennità risarcitoria “commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione in servizio, per un importo non superiore a dodici mensilità”. Nelle aziende piccole, invece, per i lavoratori già in servizio continuerà ad applicarsi la tutela risarcitoria da 2,5 a 6 mensilità, prevista dall’articolo 8 della legge 604/1966. Ma dove non è arrivata ieri la Fornero, come detto, rischia di riuscire oggi Renzi.