L'Arenas Das Dunas (dove l'Italia di Prandelli venne eliminata dall'Uruguay) e lo stadio Fonte Nova come ampiamente previsto non servono alle piccole squadre locali, così la società proprietaria, in crisi di liquidità, ha pensato di liberarsene. E per le Olimpiadi il rischio cattedrali nel deserto è identico
Nessuna nostalgia coglierà i tifosi italiani, che su quel campo, tra morsi e rimorsi, lasciarono ogni speranza di una immeritata qualificazione Mondiale. L’Arena das Dunas di Natal, teatro della fatale sconfitta azzurra contro l’Uruguay, è in vendita. L’impianto, che ospitò altre tre partite dell’ultima edizione della Coppa, costò 125 milioni di euro e strappò gli applausi degli ispettori Fifa. Cinquanta milioni in più furono necessari per la ricostruzione del vecchio stadio di Salvador. Furono sei le partite disputate all’Arena Fonte Nova, che ora è disabitato perché il Bahia, squadra di seconda serie brasiliana, non sa che farsene di una struttura da 55mila posti a sedere. Das Dunas e il 50% di Fonte Nova sono in vendita: la società che li ha realizzati, il gruppo Oas, è alla disperata ricerca di liquidità e, evidentemente, considera i due asset non così fondamentali.
Oas è al centro dello scandalo Petrobras, che negli scorsi giorni ha portato in piazza due milioni di cittadini furenti con l’amministrazione Roussef. Secondo i magistrati brasiliani il suo Partito dei Lavoratori sarebbe stato finanziato per anni dal colosso degli idrocarburi, che in cambio avrebbe ottenuto 800 milioni di dollari di contratti gonfiati per la costruzione di infrastrutture petrolifere. Al banchetto avrebbe partecipato Oas assieme a decine di altre aziende, riunite nel cartello Btp. La società, nata a Bahia negli anni ’70, ha investimenti in venti paesi tra edilizia, strade e aeroporti, eppure pare messa momentaneamente in ginocchio dalla gogna della corruzione. La pressione sul governo è forte perché, dopo anni di crescita travolgente, l’economia è a un passo dalla recessione e, senza investimenti, migliaia di posti di lavoro sono a rischio.
Il Mondiale più costoso di sempre, vertigine di un paese progredito e progressista, è oggi visto come la cima delle montagne russe. É quanto, per mesi, tentarono invano di spiegare le piazze di San Paolo e delle altre città brasiliane. La mobilitazione è destinata a riprendere vigore perché i famigerati rincari sui ticket dei mezzi pubblici che scatenarono le rivolte un anno fa adesso sono effettivi e fra quindici mesi sarà la volta delle Olimpiadi di Rio de Janeiro. La smania aggiudicatrice che consegnò al Brasile i due principali appuntamenti sportivi planetari si è già concretizzata in nuovi cantieri eterni, spreco di denaro pubblico e sfoghi di rabbia.
La protesta più clamorosa, finora, ha la firma del movimento Occupy Golf, che si batte contro la costruzione di un campo a Barra de Tijuca, a ovest di Rio. Il sito si trova su una zona protetta e gli attivisti chiedono di trovare un nuovo spazio per ospitare il ritorno di mazze e palline a cinque cerchi, dopo 112 anni. Un altro grande ritorno olimpico, quello del rugby, rischia di non essere celebrato a dovere: lo scandalo Petrobras e i sospetti di corruzione hanno coinvolto anche l’azienda Queiroz Galvao, che ha l’appalto per la realizzazione del complesso sportivo di Deodoro. Si tratta di una delle principali opere di Rio 2016, destinata a ospitare la palla ovale e un’altra decina di discipline. La ditta è in ritardo sui pagamenti e ha già lasciato a casa 70 dipendenti, i lavori sono al palo. L’inchiesta sulla multinazionale del petrolio ha avuto conseguenze anche sul comparto ospitalità: l’hotel di lusso, progettato per i Giochi dal miliardario Eike Batista nell’ex sede del club di canottaggio del Flamengo, è stato occupato da decine di senza casa. Lo sgombero violento da parte degli agenti non ha fatto che alzare la tensione, parte dell’edificio è stata data alle fiamme e risulta non più servibile.