Appena diciottenne raggiunse Danilo Dolci a Partinico, Sicilia, per condividere la sua lotta nonviolenta contro la mafia. Nel 1961 fu parte attiva della prima marcia della pace Perugia-Assisi organizzata da Aldo Capitini. Partecipò ormai trentenne al ’68 ma definendosi, con grande sconcerto di amici e conoscenti, “anarco-socialdemocratico” o, più chiaramente, “anarco riformista”. Il ripudio della violenza, insomma, Goffredo Fofi, classe 1937, saggista, critico teatrale, letterario e cinematografico, l’ha praticato e teorizzato da sempre. Ma solo ora ha deciso di raccogliere le sue riflessioni sull’argomento in un pamphlet: Elogio della disobbedienza civile (Nottetempo). La spiegazione del titolo, il suo insistere sulla parola “disobbedienza”, arriva quasi subito, a pagina 6: “La disobbedienza civile può fare a meno della nonviolenza (…) mentre la nonviolenza non può fare a meno della disobbedienza civile, salvo trasformarsi, come è perlopiù accaduto, in happening collettivi o in forme di autoperfezionamento di gruppi e di singoli molto vicini al New Age, e dello stesso genere di consolazione narcisistica”.
Niente fiori nei cannoni, dunque. Ma nemmeno cannoni. Violenza, insomma, mai. Dogma (ma l’autore rifiuterebbe questo termine) al quale si arriva solo alla fine del pamphlet, quando Fofi afferma di non riuscire a condividere il pensiero di uno dei massimi teorici della disobbedienza civile, il filosofo Günther Anders, quando sostiene che la violenza è praticabile in casi estremi “se col suo aiuto e soltanto col suo aiuto può affermarsi la nonviolenza”. In mezzo, in novanta dense pagine, Fofi analizza, con grande scoramento, la società attuale, che descrive preda di una sorta di narcisismo di massa e quasi totalmente asservita al consumismo, e individua nella disobbedienza civile la sola arma a disposizione di chi non accetta lo stato presente delle cose, per cambiarle. “Una violazione intenzionale, disinteressata, pubblica e pubblicizzata di una legge valida, emanata da un’autorità legittima”. Questa la definizione di disobbedienza civile che Fofi mutua da un saggio di Teresa Serra. Ma come attuarla? In quali contesti? Con quali possibili rischi e risultati?
A Fofi non sfugge che il mondo stia marciando ostinatamente in direzione contraria: “Non illudiamoci: il mondo continua a essere dominato dalla violenza, quella esplicita e barbarica, e quella di chi ha in mano le chiavi dell’economia mondiale e della ricerca, di chi ha già in mano da tempo le armi più distruttive, decisive”. Se riesce difficile immaginare una rivolta di disobbedienti ai tagliagole dell’Isis e consimili (anche se le manifestazioni di Tunisi sono un segnale importante dell’effetto che può avere una massa critica di quelle dimensioni e intenzioni), non è utopia, secondo Fofi, pensare a una sorta di nuova resistenza che non si esprima solo nelle rituali marce della pace, una disobbedienza che sia davvero civile (e non si ammanti di violenza come in alcune frange della protesta anti Tav). Gli esempi sono quelli del passato, dagli “scioperi al contrario” teorizzati e praticati da Danilo Dolci (invece di astenersi dal lavoro, mettersi al servizio della società lavorando per essa, per esempio aggiustando strade e scuole), alla resistenza passiva gandhiana, alle battaglie per i diritti civili ingaggiate dai neri negli Stati Uniti negli anni ’60, al rifiuto di pagare balzelli ingiusti. Sempre subendo le conseguenze dei propri atti. Come accadde a Henry David Thoreau, il primo teorico della disobbedienza civile, che nel 1846 finì in carcere essendosi rifiutato di pagare la tassa che il governo imponeva per finanziare la guerra al Messico. “Il solo obbligo che ho il diritto di arrogarmi” scrisse “è quello di fare sempre e comunque ciò che ritengo giusto, e rifiutare le imposizioni della legge (…) quando spingano a commettere atti che la mia coscienza e la mia conoscenza delle cose considerano ingiusti”.