Il rapper di Compton è in vetta alle classifiche e per 'To Pimp A Butterfly' si è avvalso della collaborazione di Dr. Dre, Pharrell Williams, Snoop Dog. Lamar tratta temi sociali e individuali. Critica l'avidità dell'industria discografica, la miopia della Zio Sam, la ricchezza e l'odio razziale; sonda le differenze di genere, parla di aborto, si interroga su Dio
To Pimp A Butterfly, il nuovo album di Kendrick Lamar ha immediatamente riscosso il plauso planetario di critica e pubblico. È entrato direttamente al primo posto nella classifica BillBoard, e da lì non si è più mosso. Ha cancellato qualsiasi record di ascolto in streaming: nel primo giorno ha totalizzato su Spotify 9,6 milioni di ascolti. Numeri stratosferici raggiunti anche a dispetto del leak (falla con molta probabilità studiata a tavolino dalla Interscope Records) che ne ha anticipato l’uscita di una settimana. Lamar non è solo profeta in patria e nella rete: il suo terzo album è, stabile, sul podio degli album più venduti di tutto il mondo.
Un album dei record che non nasce dal nulla. Il giovane rapper di Compton, cittadina della contea di Los Angeles, per realizzarlo, si è avvalso tra gli altri di Dr. Dre (senza Dr. Dre, Eminem non esisterebbe); Pharrell Williams (la sua Happy la canticchiano anche i muri); Snoop Dog (il suo hip hop ha venduto trenta milioni di copie); Flying Lotus (stimato alchimista di rap ed elettronica) e Thundercat (ricercato e poliedrico bassista). Le tracce di Lamar vedono poi la presenza – o nei sample o nella scrittura – di mostri sacri della black music di sempre: Michael Jackson, George Clinton (la mente e i braccio dei Parliament e dei Funkadelic) e Boris Gardiner (figura reggae di spessore). Le porte per collaborare e permettersi di utilizzare il materiale di questi grandi artisti, Lamar le ha aperte da solo: i suoi svariati EP e mixtape hanno bucano la rete, facendo crescere inesorabilmente l’hype attorno alla sua figura. Magnetizzata l’attenzione dei grandi produttori è arrivato il primo album, Section.80, ma è con Good Kid, M.A.A.D City che Lamar, oltre al riconoscimento della scena, ottiene il successo commerciale. Nel frattempo collabora con Eminem, 50 Cent, Dido, Robin Thicke, Tame Impala e Mayer Hawthorne. Date le premesse, le attese erano altissime; ma Lamar le ha soddisfatte appieno.
To Pimp A Butterfly e sì un album rap, ma non solo. Nelle sue infinite diramazioni, nelle sue ritmiche e melodie si concentra gran parte della musica prodotta dalla black culture. Hip hop, funk, jazz, soul, fusion sono più che semplici incursioni; i loro stilemi sono tavolozze su cui il flow istrionico di Lamar racconta il presente. Generi che dialogano con l’elettronica senza perdere di immediatezza. Nonostante l’eterogeneità di stili, le sedici tracce non sono compartimenti stagni. To Pimp A Butterfly è un lavoro organico che presenta un carattere omogeneo. È compendio innovativo.
Lamar tratta temi sociali e individuali. Critica l’avidità dell‘industria discografica, la miopia dello Zio Sam, la ricchezza e l’odio razziale; argomenti ben condensati dal titolo – la farfalla, che rappresenta la purezza dell’artista, è “pompata” dallo star-system – e dalla rappresentazione volutamente parossistica della copertina. Sonda le differenze di genere, parla di aborto, si interroga su Dio. Mette a nudo tanto le insicurezze quanto le certezze. Parla della propria infanzia, delle dure strade di Compton; sulle quali cercare e trovare il proprio posto nel mondo. Lamar è agli antipodi del gangsta rap; lo è nei testi e nella musica. La critica verso chi pensa che il rap sia solo basato su soldi e potere è esplicita e trasversale.
La sua poetica e il suo pensiero si rifanno ai grandi della contro-cultura nera: Nelson Mandela, Martin Luther King, Malcolm X, Kunta Kinte (lo schiavo ribelle a cui per punizione venne tagliato un piede); il brano che chiude l’album è una conversazione immaginaria con il suo padre putativo, Tupac Shakur. To Pimp A Butterfly è uscito dopo vent’anni e un giorno da Dropped Me Against The World di 2Pac e doveva inizialmente doveva intitolarsi To Pimp A Caterpillar (il cui acronimo è, appunto, 2PAC). How To Pimp A Butterfly fa riemergere l’Hip Hop made in U.S.A. dalla palude del volgare stereotipo, infestato di culi e catene d’oro, nel quale si è lasciato trascinare dall’industria musicale; e, posto che l’hip hop sia anche espressione di riscatto culturale e sociale, restituisce linfa ad un’intera comunità.