Media & Regime

La Voce, vent’anni fa chiudeva il quotidiano: il ricordo di un fiero antimontanelliano

Non avevo nessuna intenzione di celebrare il ventesimo anniversario della ‘morte’ della Voce, di cui sono stato un collaboratore piuttosto marginale anche se entusiasta. Anzi, a dire la verità, non mi ero neppure accorto della ricorrenza. Ma dopo aver letto la splendida rievocazione apparsa venerdì sulle pagine del Fatto, ho pensato che potesse essere interessante anche un mio contributo. Non certo perché pensi di avere da rivelare cose inedite. Come ho già detto, la mia partecipazione alla vita del giornale era saltuaria e dall’esterno.

Ma proprio per il fatto che la mia presenza non era affatto organica al gruppo fondatore, poco coerente, forse proprio per questo il mio punto di vista può risultare significativo. A differenza del gruppo di giornalisti come Vitali, che mi coinvolse nell’avventura, Delbecchi, Travaglio, che arrivavano dal Giornale ed erano montanelliani doc, io non lo ero affatto e non lo sono mai diventato, neppure ora. Anzi, per posizioni politico-culturali (sessantottino, comunista, con una collaborazione intensa alla rivista culturale dei gesuiti milanesi, quindi cattocomunista, che per i montanelliani era il peggio) ero un fiero antimontanelliano, uno che chiamava Il Giornale ‘il geniale’ come lo aveva battezzato sarcasticamente il Fortebraccio dell’Unità. Non sto qui a rievocare i modi con cui entrai a far parte della compagnia. Sono così singolari che nessuno li crederebbe veri e la storia sembrerebbe solo un aneddoto edificante sul giornalismo virtuoso. E di certo non conta nulla nella storia del giornalismo.

Conta invece un’altra cosa. Il fatto che si siano appassionatamente coinvolte in quell’avventura e se ne sentano ancora partecipi persone che, come me, venivano da formazioni culturali diverse, dice qualcosa di assai importante sulla storia di quegli anni e sul ruolo che La voce ebbe in quel momento decisivo della vita nazionale. Erano i giorni in cui dopo le bufere del triennio ’89-92 si scomponevano e si riorganizzavano gli schieramenti politici e culturali del Paese, non solo a livello istituzionale ma nella società. Caduti, sfarinati i due blocchi tradizionali, nascevano aggregazioni, sintonie, collaborazioni tra soggetti che provenivano da esperienze passate diverse, anche opposte.

Da un lato coloro che, liberali, comunisti o democristiani in passato, pensavano che il bene del Paese potesse arrivare solo dal rispetto delle regole costituzionali, dalla legge uguale per tutti, dalla separazioni dei poteri, dalla separazione degli interessi economici da quelli politici, della fede religiosa dalla laicità delle istituzioni. Dall’altro coloro che, in buona o cattiva fede, si entusiasmavano di fronte alle prospettive di un sedicente nuovo modello di Repubblica basata sul consenso diretto del popolo, il carisma miracolistico del capo e il primato dell’attività economica indifferente a ogni regola, liberata da ogni ‘conflitto’. In quella situazione La voce si collocò con chiarezza sulla prima di queste due posizioni.

E questo è un merito che nessuno, neanch’io, può negare a Montanelli: è ciò che lo fece diventare, nella mente di qualcuno, un ‘comunista’ o in menti ancor più inclini alla fantasia un vecchio, ostaggio di una banda di giovanotti comunisti. Ma La voce non si limitò a questo, a schierarsi, fece di più. In quel rimescolamento di appartenenze, in quella confusione di riferimenti, creò un punto di incontro per coloro – giornalisti, ma soprattutto lettori, cittadini – che, indipendentemente dalla loro provenienza politica, si riconoscevano in certi valori e nell’irrinunciabilità di certe regole. Certo non un nuovo partito ma l’espressione di una nuova sensibilità politica, della convergenza di percorsi in origine anche tra loro lontani. Questa fu la cosa più importante di quella brevissima esperienza.

Sul perché sia finita presto e male, si è detto e scritto tanto e non credo di poter aggiungere dati importanti. Alcune cose però mi hanno sempre lasciato perplesso e le voglio ricordare. Per esempio il fatto che ogni tanto il giornale non andasse in edicola perché in tipografia non era arrivata la carta. Vi pare possibile? E vi pare possibile che muoia un giornale che vende sessantamila copie? Quanto all’assassino, come nei gialli più banali, io ho qualche sospetto sul maggiordomo, su uno che fu introdotto in casa per dare una mano, ma aveva altre intenzioni. Però – confesso – non sono un grande risolutori di intrighi gialli.