“Gli italiani perdono le guerre come se fossero partite di calcio e le partite di calcio come se fossero guerre”. (Winston Churchill)
“Il capocannoniere di un campionato è sempre il miglior poeta dell’anno“. (Pier Paolo Pasolini)
“Non c’è un altro posto del mondo dove l’uomo è più felice che in uno stadio di calcio”. (Albert Camus)
“L’italiano ha un solo vero nemico: l’arbitro di calcio“. (Ennio Flaiano)
Molti giornalisti hanno fatto il salto dalla platea ai riflettori. Dal fare le domande al porre interrogativi. Dal grande al piccolo, dalla moltitudine nell’ombra all’occhio di bue ad abbagliarti. Pensiamo a Marco Travaglio, Promemoria, Anestesia totale, E’ stato la mafia, o ad Andrea Scanzi, Le cattive strade, ma anche a Vincenzo Mollica, Prima che mi dimentichi tutto. Nel piccolo orticello fiorentino ecco in anni recenti Gabriele Rizza e il suo Per certi versi, a cavallo tra poesia e canzone francese, il ‘gaberiano’ Edoardo Semmola. Qui si presta al gioco teatrale il giornalista sportivo Benedetto Ferrara sempre diviso, con ironia pungente e sarcasmo raffinato, tra carta stampata, televisione, radio, ma anche moto e molto social. E molto viola, inteso come Fiorentina. Una seconda pelle.
Spettacoli teatrali sul calcio, sul grande rettangolo verde con ventidue virgulti a rincorrere un pallone, negli ultimi anni ne sono stati prodotti, da quel Mi chiamano Garrincha di Darwin Pastorin sull’ala brasiliana con una gamba più corta dell’altra, passando per Fuorigioco di rientro di Andrea Mitri (realmente ex calciatore professionista di serie B e C: Triestina, Ternana, Monza, Cavese, Pistoiese, Latina) piccolo caso cult, fino all’acclamatissimo Italia–Brasile 3-2 che ci fece conoscere il palermitano Davide Enia, o ancora L’Atletico Ghiacciaia di Alessandro Benvenuti, epopea provinciale e proletaria di pallone e Case del Popolo, Storie d’amore e di calcio del Teatro Minimo di Andria, una sorta di San Isidro Futbol Club, segnalando anche La Bella Estate di Riccardo Ventrella sul magico Mundial ’82, concludendo con Andrea Bruno Savelli, appassionato e ‘malato’ di Antognoni & co. prima con Viola di rabbia e recentemente con la dedica a Stefano Borgonovo, centravanti sfortunato, Attaccante nato. “Calcio è calcio”, chiosava Boskov.
In letteratura invece gli ammiccamenti, i travasi, gli abboccamenti, le invasioni di campo, le penetrazioni non si contano più, da Soriano e Galeano a Camus fino a Nick Hornby, solo per citare i più enfatici. Un connubio che Ferrara (con Leonardo Venturi e Andrea Orlandini e Alessandro Nutini della Bandabardò) calca e segue, un solco che segna e spinge tra musica, rimpianti, certezze, fede immutata. Molto rock, pochissimo lento. Questo Viola Pop (e dire che il viola in teatro non porta benissimo) è tutto nella locandina: quattro che saltano (quattro come i Beatles, ma senza strisce), coprendosi varie parti del corpo, per proteggersi da una punizione al limite dell’area. E’ la metafora della vita (“Il calcio è la cosa più importante delle cose non importanti”, ammoniva il Sacchi di Fusignano), il saltare per impedire di farsi attraversare dal capitolare, contemporaneamente al ripararsi senza commettere l’estremo fallo da rigore.
Sta tutto in quest’equilibrio precario, la vita come il pallone, dove, come in natura c’insegna Darwin, non vince il più forte ma quello che meglio si adatta alle caratteristiche dell’habitat. Il sottotitolo, Meglio in teatro che ladri che riprende lo slogan dell’82 dopo uno dei tanti scippi della Juventus, è l’anima di chi reagisce alle ingiustizie, di chi va a testa alta, fiero, non disposto a inchinarsi ossequioso al potente di turno. Iperbole e nostalgia, brividi ed emozioni, senza contro vento, contro corrente a sfidare i poteri forti. Il clima è da stadio e non potrebbe essere altrimenti.
Venturi (buona spalla sforna assist, parodizza l’attore scespiriano o gassmaniano, fino a lanciarsi nell’erre moscia agnelliana) e Ferrara, due uomini, con venti anni di differenza che raccontano la loro autobiografia costellata di calcio e sconfitte, di crescita a suon di pallone e Fiorentina. Il calcio di una volta, quello delle figurine, quando ancora c’erano i terzini e gli stopper e pure il libero, quando i numeri delle maglie andavano dall’1 all’11 senza i nomi dietro, le esultanze erano normali e le scarpe tutte nere. Immersi in una scenografia che riproduce una cameretta di un adolescente con poster, biglietti, cantanti e calciatori ci portano a fine secolo, a fine millennio ricordandosi, che si sia tifosi o meno della Fiorentina, sfide impensabili, gesti tra l’epico e l’eroico, rimonte impossibili.
Perché non solo, qualche volta, Davide batte Golia, ma anche Paperino o Silvestro, il gatto Tom e il Coyote piccole soddisfazioni se le sono tolte.
In fondo aveva ragione Pelé quando sentenziava che “Non c’è niente di più triste di un pallone sgonfio“, perché lì finiscono i giochi, i sogni, l’infanzia, la possibilità di un domani. Finché c’è una palla che rotola c’è speranza.
Visto al Teatro Puccini, il 10 aprile 2015