“Mia madre Van Lân è stata deportata dai Khmer Rossi in un campo di lavoro”. Nei suoi 30 anni, Sreita ha sentito tante volte da sua madre i racconti legati al genocidio voluto da Pol Pot che tra il ‘75 e il ‘79 ha fatto oltre 2 milioni di vittime, un quarto della popolazione di allora, in nome di un’ideologia egualitaria trasformatasi in incubo. Sono passati esattamente 40 anni da quando i comunisti presero il potere entrando trionfalmente a Phnom Pehn il 17 aprile del 1975. Ieri la Cambogia si è fermata a ricordare.
Van Lân è sopravvissuta a due figli morti nei lager, e dopo la caduta dei Khmer Rossi ha ottenuto lo status di rifugiato politico in Francia, dove la terza figlia Sreita è cresciuta. Incontro la ragazza nel cortile del Campo S-21, la scuola di Phnom Phen dove migliaia di persone sono state torturate e private di ogni residuo di umanità prima di essere trasportate nei campi di sterminio, poco fuori dalla capitale. “Quando ha saputo che mia sorella stava per morire” racconta ancora Sreita, “mia madre ha raggiunto la zona di detenzione dei bambini per vederla un’ultima volta. Come estremo desiderio la piccola ha chiesto qualcosa di dolce, nonostante morisse letteralmente di fame. Così mia madre è andata a cercare un po’ di canna da zucchero. Ha attraversato il campo più in fretta possibile, nonostante gli spari e il pericolo delle mine. Ma quando è tornata la bambina era morta. E non si è mai perdonata di non aver corso abbastanza”.
Entrando nelle ex aule spoglie e silenziose dell’S-21, tra i segni delle minuscole celle e le brande dove i reclusi erano costretti a dormire, campeggiano le foto dei responsabili dell’ orrore. Quelli di cui, a parte Pol Pot – morto probabilmente per cause naturali nel ‘98 senza essere mai chiamato a rispondere dei suoi crimini – la Cambogia sta finalmente celebrando il processo. Quarant’anni dopo, i Khmer Rossi ancora in vita sono rimasti in pochi.
Il fratello n 2, l’88enne Nuon Chea e l’ex capo di Stato Khieu Samphan, oggi 83enne sono stati condannati entrambi all’ergastolo per crimini contro l’umanità e genocidio. La sentenza è arrivata lo scorso agosto, dopo 3 anni di udienze del tribunale internazionale formato dall’Onu nel 2009. Stessa sorte era toccata al “compagno Duch”, al secolo Kang Kek lew, che del campo S-21 era stato il boia, mentre Leng Thirith, cognata di Pol Pot, quasi invisibile ma una delle menti dietro lo sterminio, ha ottenuto l’infermità mentale a causa dell’Alzheimer. “Quando è iniziato il processo ho chiesto a mia madre: ‘vogliamo guardarlo in tv’? Lei ha risposto nel suo francese misto di parole khmer: ‘non m’importa più. Qualunque cosa sarà, quel male è stato fatto’”.
Per arrivare all’antica capitale, Siem Reap la strada taglia il Paese in verticale, come una ferita. L’asfalto si alterna ad ampi tratti di sterrato, attraversa le distese piatte coltivate a riso ed entra nei villaggi – case modeste e tranquilli templi buddisti. Arrivo tra le rovine di Angkor Wat, complesso archeologico Khmer descritto da Tiziano Terzani come “uno dei pochi, straordinari luoghi del mondo dinanzi ai quali ci si sente orgogliosi di essere membri della razza umana”.
Rith, poliziotto di 29 anni, sposato e con 4 figli, parla del presente. “La Cambogia sta cambiando pelle, ma non è sempre un bene”, inizia con sorprendente schiettezza in un Paese dove la libertà di espressione non è scontata. “Questa provincia è rimasta tra le più arretrate. La gente normale fa fatica a vivere: un dipendente pubblico non guadagna più di 80 dollari al mese. Però poi in Cambogia trovi i miliardari…”. Dove stanno? Rith è categorico: “Fatti un’altra passeggiata a Phnom Pehn. Guarda che macchine ci sono, e quanti soldi girano”. Di chi parli? Sorride: “Chi governa gestisce i soldi, paga e ottiene tutto quello che vuole”. Enormi diseguaglianze sociali e corruzione come mezzo per arricchirsi e mantenere il potere sono solo l’altra faccia della modernità.
È così che la Cambogia scivola verso il futuro e prova a chiudere i conti con il passato. O a rimuoverlo? La generazione nata dopo gli anni del genocidio, i ventenni e trentenni di oggi, rappresentano l’ossatura di un Paese dalla demografia esplosiva tutto proiettato verso l’avvenire. “Però parlando con loro non vedo più la consapevolezza della tragedia che c’è stata”, osserva ancora Sreita. Un oblìo collettivo forse determinato dall’abisso di una ferita. Così atroce che è quasi impossibile perfino da raccontare. Il grande processo ai Khmer Rossi servirà a risanarla? “Non è una questione di giustizia nei tribunali. O almeno non solo. Il popolo cambogiano chiede innanzitutto di capire il perché del male che lo ha devastato dall’interno”. Ed è questo, forse, l’impossibile.
Il Fatto Quotidiano, 16 aprile 2015