E’ dal 2007 che lo Stato giapponese promuove attivamente e senza sosta una società e uno stile di vita robot-dipendente. Era il mese di febbraio del 2007, infatti, quando il primo ministro, Shinzo Abe, presentò il documento governativo denominato Innovazione 25, con l’obiettivo di rivitalizzare l’economia giapponese, la società civile e la famiglia entro il 2025. Come? Attraverso diversi interventi, in particolare investendo sulle nuove tecnologie. Si considera di primaria importanza la produzione massiccia di robot. Questo punto del piano governativo è ritenuto talmente strategico per il paese da ricevere, nel mese di giugno 2013, un ulteriore stanziamento di 24 milioni di dollari per lo sviluppo urgente di robot-badanti/colf/babysitter.
Perché tanta fretta e perché si punta all’urgente robotizzazione di questo particolare settore dell’economia? Due sembrano i motivi principali: l’invecchiamento rapido della popolazione e la politica nazionalista e anti-immigrati del governo. Quanto al primo motivo, c’è da rilevare che il 25% dell’attuale popolazione in Giappone ha più di 65 anni e si calcola che la popolazione anziana raggiungerà il 40% entro il 2050. A questo occorre aggiungere il basso tasso di natalità degli ultimi decenni. Con una popolazione e una forza-lavoro in diminuzione e rapido invecchiamento cresce il bisogno di personale di cura e di servizio. Per evitare però l’arrivo di lavoratrici e lavoratori immigrati, che potrebbero mettere in pericolo la (presunta) omogeneità etnica del Paese, il governo ha deciso di puntare tutto sui robot. Patria, profitti e robot.
Le politiche particolarmente restrittive del Giappone in materia di immigrazione sono note, così come sono note le estreme difficoltà degli stranieri residenti di raggiungere la parità dei diritti con i cittadini giapponesi. L’unico esperimento d’importazione di lavoratori stranieri si è realizzato nel 1980, quando fu consentito ai discendenti di antichi giapponesi (nikkeijin), che vivono in Brasile, di emigrare in Giappone. Con lo scoppio della crisi economica globale, che ha colpito duramente il Giappone, il governo è però ritornato sui suoi passi, chiedendo il rimpatrio di questi lavoratori in cambio di denaro.
Il nazionalismo si manifesta però non solo nelle politiche migratorie ed economiche, ma anche nel trattamento specifico riservato ai robot. Per capire occorre sapere cosa sono i robot che dovranno svolgere il lavoro domestico e di cura nelle famiglie. Sono dei robot-umanoidi che hanno due caratteristiche principali: un corpo somigliante a quello umano e comportamenti simili agli umani. Il tratto che distingue gli umanoidi dai vecchi robot è l’intelligenza incorporata e la loro capacità di interagire in modo autonomo con l’ambiente (se non ci credete, date un’occhiata in rete per vedere cosa sono diventati ormai i Laws, ovvero i robot-assassini).
Alcuni scienziati (Jun’ ichi Takeno; Takashi Maeno; Yoshihiro Miyake), che hanno sviluppato reti neurali artificiali, già parlano di conscious robots (robot con coscienza), ovvero di robot che sono in grado di imparare e di sviluppare autonomamente una propria intelligenza (J. Takeno, Creation of a conscious robot: Mirror image cognition and self-awareness. Singapore: Pan Stanford Publishing, 2012). La domanda di acquisto di umanoidi è molto alta in Giappone. Al punto che, Son Masayoshi, fondatore di Softbank, nel mese di giugno 2014, fu costretto a mostrare in anticipo il ‘personal robot‘ di nome Pepper, come risposta alla domanda crescente di acquisto.
Parallelamente alla domanda di acquisto di personal robots sono nati dei movimenti politici e di opinione in sostegno della cittadinanza e dei diritti dei robot-umanoidi, i quali finiscono così per essere considerati dei soggetti di diritto e non meri oggetti di proprietà (J. Robertson, Human rights vs. robot rights. Critical Asian Studies 46:4, 571-598, 2014). Il primo umanoide ad aver ottenuto la cittadinanza giapponese è stato Paro (che è un robot-animale), il 7 novembre 2010, dal sindaco di Nanto. Paro ha ottenuto la cittadinanza soltanto in virtù del fatto che suo ‘padre’, Takanori Shibata (l’ingegnere che lo ha progettato), è giapponese. E siamo così allo ius sanguinis tecnologico. Ma Paro non è l’unico robot ad essersi guadagnato dei diritti in Giappone: tra il 2004 e il 2012, sono stati concessi permessi di residenza speciali a diversi altri robot. Privilegio, questo, non concesso a nessuno straniero durante lo stesso periodo.
Nell’industria giapponese sono attualmente impiegati centinaia di migliaia di robot-lavoratori, alcuni dei quali costruiti come umanoidi, ma il numero, secondo molti studi, è destinato a triplicarsi nel giro di dieci anni. Nel frattempo, però, in Giappone aumentano i ritmi e gli orari di lavoro dei lavoratori, che sono sempre più schiacciati e ipersfruttati. Difficile venire a capo di questa contraddizione del capitalismo: che senso ha impiegare secoli per disumanizzare gli umani per poi trovarsi costretto ad umanizzare i robot?