L’impatto economico dei disastri naturali nel mondo è cresciuto fino a una media di 154 miliardi di dollari ogni anno, nel decennio dal 2005 al 2014, e quasi il 60% dei danni è stato provocato da eventi meteo. Vale a dire che i danni del meteo ci costano, un anno per l’altro, quasi 100 miliardi dollari, quasi la metà del Pil della Grecia che preoccupa l’Europa delle banche. Per questo, il clima che cambia è diventato una priorità a scala globale. Anche se, come disse Mark Twain, il clima è quello che t’aspetti, mentre il tempo è invece quello che ti becchi.

Il nostro paese non si tira indietro, come narrano le cronache di tutte le ultime stagioni, anche se le stime più precise sull’impatto economico le fanno gli assicuratori globali, non le nostre istituzioni che valutano spesso a braccia. C’è però un’altra fonte di disastri che poco ha a che fare con le bizze della natura, ma è legata a difetti umani non sempre giustificabili. Sono i disastri innaturali, quelli provocati da difetti di progettazione, costruzione, manutenzione e gestione di strutture e infrastrutture, che si rivelano assai vulnerabili, di là di qualunque livello di rischio accettabile, con sempre maggiore frequenza.

Nel mondo ci sono stati molti casi di man-made disasters, come quello del ponte della Interstate 35W nel 2007 a Minneapolis o dei ponti cinesi tra Wuyishan Gongguan, di Zigong, Jiujiang e Harbin se ci si limita ai soli ponti. In Italia, però, si è un po’ esagerato. Dalla fine del 2013 a oggi i magnifici sette maggiori disastri innaturali che mi vengono in mente sono il crollo del viadotto Himera dell’autostrada tra Palermo e Catania in Sicilia (2015) e, sempre in Sicilia quello del viadotto Scorciavacche sulla Palermo-Agrigento (2015), la rottura dell’argine del torrente Carrione a Carrara in Toscana (2014) e il crollo del ponte tra Ravanusa e Licata in provincia di Agrigento (2014), i cedimenti arginali sul fiume Misa a monte di Senigallia (2014), la rottura dell’argine destro del fiume Secchia nel modenese (2014) e il crollo del ponte di Carasco nel Genovesato (2013). E ci sarà di certo qualcuno che preciserà meglio questa lista.

In molti casi la fonte di questi disastri è l’errore di chi progetta, realizza, collauda, manutiene o gestisce le opere (come nel caso di Minneapolis). Non del destino cinico e baro o dell’evento imprevedibile e impredicibile. Eppure, se diamo retta al Corriere della Sera, gli ingegneri civili italiani sono più preparati di quelli cinesi (e anche di quelli americani). E costano meno! Allora bisognerebbe chiedersi perchè i giovani (e meno giovani) più bravi scappano in massa, con quali criteri sono assegnati gli incarichi professionali, quali sono le virtù con cui si fa carriera negli enti pubblici.

Per trovare una risposta basta guardare la composizione dei vari organi d’indirizzo e controllo dove, un tempo, la politica chiamava i migliori scienziati e i professionisti più esperti. Insomma, un sistema fondato da trent’anni sui nani e sulle ballerine qualche effetto l’ha avuto. E sta dando i suoi frutti.

L’Italia non è assente dalle classifiche dei Top 10 Man-Made Disasters mondiali. Navigando nel web Seveso 1976 è spesso presente. La tragedia del Vajont è invece quasi dimenticata, eppure è la terza al mondo per il numero di vittime delle dighe, dopo i disastri di Banqiao e Shimantan in Cina, Machchu-2 in India; alla pari con quelli di Johnstown in Usa e di Sempor a Giava. La durata dei manufatti in calcestruzzo, che per tutto il secolo scorso ha garantito un enorme progresso nelle tecniche costruttive, non è eterna. Bisogna prestare attenzione non solo ai nuovi manufatti, ma anche al patrimonio storico recente. Per esempio, molte dighe italiane hanno un’età veneranda e sarebbe meglio verificarne l’obsolescenza e le prestazioni sismiche e idrologiche prima di qualche sorpresa.

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