Vantaggi e svantaggi del salario minimo

Il dibattito sull’introduzione del salario minimo legale ruota attorno a un trade off: il salario minimo può generare disoccupazione se è fissato a un livello troppo alto, ma allo stesso tempo sostiene il potere d’acquisto dei lavoratori a basso salario limitando l’aumento della disuguaglianza.

La letteratura internazionale dimostra che è certamente possibile fissare un salario minimo a un livello sufficientemente basso da non creare disoccupazione. Tuttavia, anche in questo caso, la sua introduzione in Italia rappresenterebbe un cambiamento sostanziale delle relazioni industriali. Oggi, infatti, anche le aziende che non applicano i contratti nazionali sono tenute a rispettare i minimi salariali da essi stabiliti. Tuttavia, non tutte lo fanno, e l’introduzione di un salario minimo legale rappresenta uno strumento per tutelare i redditi dei lavoratori di queste aziende (spesso di micro dimensioni).

La questione è dunque se esiste un problema di disuguaglianza nella parte bassa della distribuzione dei salari che possa giustificare il cambiamento del modello di relazioni industriali e l’introduzione del salario minimo anche in Italia.

Il calcolo sui salari

Utilizziamo i dati del campione Inps sui sui salari settimanali lordi in termini reali (prezzi=2012) dei lavoratori full-time nel settore privato e misuriamo la diseguaglianza con indici che si basano sul raffronto di percentili. Se si pone la popolazione in ordine crescente di reddito, il primo percentile è il valore del reddito che separa l’1 per cento più povero dal rimanente 99 per cento più ricco; il cinquantesimo percentile coincide con la mediana, cioè con il valore che separa la metà più povera dalla metà più ricca della distribuzione. Il rapporto tra il novantanovesimo e il primo percentile (indicato come p99/p1) misura quindi la distanza tra i più ricchi e i più poveri.

Questo rapporto indica un aumento rilevante della diseguaglianza, soprattutto dal 2002 in poi.

La figura 1 mostra chiaramente che dal 1993 al 2012, tutto l’aumento della diseguaglianza è avvenuto nella parte bassa della distribuzione dei redditi: fatti cento i livelli del 1993, il primo percentile della distribuzione ha perso circa 15 punti in termini reali, mentre il 99esimo e il 50 percentile sono rimasti grosso modo costanti. I salari mediani e quelli dei lavoratori più ricchi non sono aumentati di molto in questi venti anni in termini reali, ma i salari dei lavoratori più poveri hanno perso terreno causando un allargamento della forbice dei salari nella parte bassa della distribuzione.

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La figura 2 mostra che il rapporto tra il 99esimo e il primo percentile dei redditi è passato da 2,3 a 2,5 (poiché la scala è logaritmica, corrisponde a un rapporto tra i redditi dei più ricchi e quelli dei più poveri che va da 9,9 a 1 nel 1993 a 12,1 a 1 nel 2012): un aumento della diseguaglianza del 20 per cento in venti anni, concentrata negli anni Duemila.

Effetti sulla diseguaglianza

Poteva andare diversamente se ci fosse stato un salario minimo? Gli esercizi controfattuali sono sempre difficile da fare, in particolare perché l’introduzione del minimo legale potrebbe indurre qualche effetto di disoccupazione o di traslazione sui salari dei lavoratori pagati al di sopra del minimo, ma è improbabile che si facciano sentire nei percentili più alti della distribuzione. Ci chiediamo quindi come sarebbe cambiato il rapporto tra il 99esimo e il primo percentile se avessimo avuto un salario minimo nel 1993.

Nei paesi dove esiste, il salario minimo legale è fissato tra il 40 e il 60 per cento del salario mediano. Le due linee più basse della figura 2 mostrano il rapporto p99/p1 se si fosse introdotto un salario minimo del 40 per cento e del 60 per cento del salario mediano del 1993 e non si fosse più cambiato.

La figura 2 mostra che il livello della diseguaglianza sarebbe stato minore, ma soprattutto sarebbe stato molto inferiore l’aumento della diseguaglianza nel tempo. La ragione di questo effetto è che il salario minimo avrebbe migliorato le condizioni di molti lavoratori che oggi sono pagati al di sotto di quanto stabilito dai contratti di lavoro.

Oggi, un salario minimo di 5 euro all’ora corrisponderebbe al 40 per cento del salario mediano, 7 euro corrisponderebbe al 60 per cento. Dai dati 2012 si ricava che circa il 4 per cento dei lavoratori guadagna meno di 5 euro l’ora (200 euro a settimana) e l’8 per cento meno di 7 euro l’ora (280 euro a settimana).

Per decidere se introdurre il salario minimo, dunque, bisogna valutare se il sistema dei contratti collettivi nazionali lascia di fatto scoperti troppi lavoratori dipendenti (tutti gli apprendisti e i parasubordinati- esenti dall’applicazione dei contratti nazionali – sono già esclusi da questi dati). Ciò avviene quando il datore di lavoro deliberatamente paga meno del dovuto o nei casi di lavoro nero. Inoltre, in molte micro imprese o per chi lavora a prestazione, il riferimento al contratto nazionale potrebbe essere meno rilevante. I lavoratori al primo percentile della distribuzione non appartengono solo ai settori dell’agricoltura e costruzioni, ma spesso al settore dei servizi e del commercio e in gran parte (25 per cento) a micro imprese che hanno meno di cinque dipendenti.

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Lorenzo Cappellari è professore ordinario di economia politica presso il Dipartimento di Economia e Finanza dell’Università Cattolica, dove insegna economia del lavoro e econometria. Research fellow presso CESIfo, IZA e SFI, ha svolto attività di ricerca per l’OCSE, la Commissione Europea, la Russel Sage Foundation, la Nuffield Foundation e la British Academy. Ha pubblicato articoli riguardanti l’analisi empirica del mercato del lavoro, in particolare povertà e disuguaglianze, le dinamiche di salari e redditi, le transizioni nel mercato del lavoro, l’economia dell’istruzione. 

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