Il titolo è tecnicamente inesatto, ma lo lascio perché rende bene l’idea di quanto è avvenuto ieri.

La Corte Suprema di Cassazione (sentenza 8097 del 21 aprile 2015) ha stabilito la validità del matrimonio tra Alessandra e Alessandra, due spose di cui una era uomo al momento del matrimonio, ma ha successivamente mutato sesso.

La vicenda giudiziaria delle due Alessandra è nota ai repertori della giurisprudenza da almeno cinque anni. Dopo il matrimonio il marito (Alessandro) realizza e decide che è arrivato il momento di chiedere e ottenere la rettificazione degli atti dello stato civile da uomo a donna. Muta dunque sesso e nome, in Alessandra. La moglie lo segue in questo suo percorso, difficile e pieno di conseguenze sotto il profilo giuridico, ma che la legge gli consente di intraprendere per consentirgli/le di far finalmente coincidere, come ha scritto ormai decenni fa la Corte costituzionale, “il soma con la psiche“.

Ma la legge sa anche essere fredda e implacabile.

Infatti, nella mente del legislatore il coniuge che cambia sesso procederebbe a un mutamento talmente radicale della propria dimensione umana che non avrebbe senso che il suo matrimonio rimanga in vita. Perciò, con una formula peraltro non del tutto chiara e precisa che deriva dalla combinazione di due diverse disposizion, della legge sulla rettificazione dell’attribuzione di sesso da un lato e la legge sul divorzio dall’altro, si prevede che la sentenza di mutamento di sesso “determina lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili“. Non chiara e imprecisa perché, come tutti sanno, nel nostro ordinamento il divorzio va chiesto espressamente, e non può essere pronunciato d’ufficio dal giudice o “imposto” contro la volontà dei diretti interessati. Fredda e implacabile questa legge, inoltre, perché fondata sulla presunzione, non sempre vera o verificabile, che si sia estinta quella possibilità di comunione materiale e morale che caratterizza il matrimonio. Cosa che, invece, nel caso di cui parliamo non si è per niente verificata: i due coniugi non hanno infatti alcuna intenzione di separarsi, ma si amano ancora.

Investita della questione, con una sentenza che non brilla per chiarezza, la Corte costituzionale aveva deciso che il divorzio imposto è incostituzionale: il passaggio da uno stato matrimoniale a uno stato, all’opposto, di totale assenza di legami tra i due interessati viola la Costituzione nella misura in cui non tutti gli interessi in gioco risultano necessariamente sacrificabili in virtù della scelta liberamente effettuata da uno dei coniugi. Spetta però al Parlamento fornire tutela alla nuova situazione venutasi a creare a seguito della rettificazione anagrafica, con una legge sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso.

Siccome tale legge non c’è ancora, ieri la Cassazione ha giustamente ritenuto di dover preservare il matrimonio tra Alessandra e sua moglie, dato che il matrimonio rappresenta oggi l’unico istituto idoneo a dare conto della situazione nella quale le due donne effettivamente si trovano attualmente. E’ un altro richiamo, l’ennesimo, alla responsabilità del legislatore.

Mentre i vari progetti di legge in materia di unioni civili giacciono nelle Commissioni e nelle Camere e ad oggi, nonostante gli sforzi profusi soprattutto in sede di ddl Cirinnà, una tale legge non ha ancora visto la luce, le due donne rimangono sposate. E’ il primo matrimonio same-sex italiano valido, anche se la vicenda da cui trae origine è evidentemente differente, sotto il profilo tecnico, dall’ipotesi in cui due uomini o due donne decidano di sposarsi.

Ora aspetto i soliti detrattori e mentitori sostenere che ora l’Italia verrà investita da terribili catastrofi naturali e terremoti, da un picco di divorzi e separazioni (già, perché ora con Alessandra e Alessandra sposate, tutti i matrimoni eterosessuali sono in pericolo!) e dallo sfaldamento totale della famiglia. E’ questo che dicono, no?

Beh, intanto la Cassazione inchioda di nuovo il Parlamento alle sue responsabilità costituzionali. La legge va fatta, e va fatta con “la massima sollecitudine“, come scrisse l’anno scorso (!) la Corte costituzionale. Sollecitudine all’Italiana, dunque, che sembra essere sinonimo di non fare niente.

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