Gli standard di accoglienza e verifica sono migliori rispetto al passato, ma ancora si prestano a infrazioni. L'avvocato Salvatore Fachile: "Perché ci si ostina creare disagio? Perché si continua a mettere in difficoltà il migrante? Quando crei una vulnerabilità giuridica, crei un soggetto in balia di decisioni di altri"
Al netto della tragedia che si è consumata nella notte tra il 18 e il 19 aprile nel Canale di Sicilia, tra l’11 e il 14 aprile ci sono stati venti sbarchi in quattro giorni. Diciotto ne ha tracciati Save the Children tra Lampedusa (6), Sicilia (8), Calabria (2) e Puglia (2). Il 14 aprile si sono aggiunti altri due mercantili, che hanno portato 372 migranti a Pozzallo: il totale fa più di 5.500 persone. Cronache dal fronte meridionale della Fortezza Europa, sempre più presa d’assalto dai disperati che si ammassano sulle coste della Libia. “Quella che si sta consumando in queste ore nel Mediterraneo è una tragedia in divenire – spiega all’agenzia di stampa Redattore sociale Carlotta Sami, portavoce Unhcr per il Sud Europa -. Rispetto allo scorso anno l’aumento delle morti in mare è enorme”. L’ong Watch the Med il 14 aprile ha rilevato la presenza di 12 imbarcazioni che arrancano nel mezzo della rotta del Mediterraneo centrale. E questo è solo il prologo dell’estate post record sbarchi, che nel 2014 sono stati 174mila in Italia (di cui 100mila hanno poi lasciato il Paese), secondo i dati Eurostat. L’emergenza, insomma, continua. Il Commissario Ue agli Affari Interni e all’Immigrazione Dimitris Avramopoulos ha sottolineato la necessità di mandare più aiuti all’Italia e ha annunciato che si recherà a Milano il 24 aprile anche per vedere il ministro dell’Interno Angelino Alfano. La portavoce della Commissione europea Natasha Bertaud il 17 aprile ha dichiarato che non è possibile implementare i fondi per il pattugliamento e le missioni di salvataggio.
Fin qui la situazione in mare, la più tragica. Ma ce n’è una seconda emergenza che inizia dopo gli sbarchi: la gestione dei richiedenti asilo. La Commissione europea ha potenziato il sistema d’asilo italiano a febbraio 2015 con l’erogazione di 13,7 milioni di euro attinti dal Fondo asilo, migrazione e integrazione (Amif) eppure ancora esistono lacune strutturali. Il prefetto Mario Morcone, capo del Dipartimento Immigrazione al Viminale, ha diramato una circolare ai suoi colleghi in tutta Italia perché recuperino in fretta e furia 6.500 posti d’accoglienza per i nuovi profughi. È la solita maledizione dell’Italia che si avvera, inesorabile, ogni anno: il collasso del sistema d’accoglienza. Il Viminale ha fatto passi in avanti rispetto agli anni passati: il sistema Sprar (Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati, costo medio 30 euro ad ospite), con standard d’accoglienza meno instabili, un processo di accreditamento che dovrebbe aiutare ad evitare sprechi e ruberie, è stato potenziato da 3mila a 22mila posti. L’obiettivo è raggiungere quota 40mila, ma ancora il bando non è stato aperto. E le necessità che parta sono sempre più evidenti. Il potenziamento dello scorso anno non ha comunque evitato una sequela d’infrazioni nella possibilità di richiedere asilo in Italia.
Il Centro operativo per per il diritto d’asilo è un progetto finanziato da Open society foundations di cui fanno parte Laboratorio 53 e Senzaconfine, due associazioni che si occupano di diritto d’asilo supportate da Asgi – Associazione studi giuridici per l’immigrazione. Tra il 2013 e il 2014 ha seguito 38 richiedenti asilo con 50 azioni legali. Il progetto si concentra in particolare su Roma, la cui Questura, nell’ufficio immigrazione, pare essere il “regno dell’arbitrarietà”, a quanto raccontano gli operatori. “Non esistono prassi certe”, scrivono nel loro diario degli assurdi che ogni giorno hanno luogo in Questura. “Perché ci si ostina creare disagio? Perché si continua a mettere in difficoltà il migrante? – si chiede l’avvocato Salvatore Fachile, iscritto Asgi del foro di Roma – La mia risposta è che si vuole trasmettere un senso di inferiorità migrante. Questa condizione fa sentire giuridicamente più forti gli italiani. Quando crei una vulnerabilità giuridica, crei un soggetto in balia di decisioni di altri”.
E così accade a 12 nigeriani salvati con la missione della Marina militare Mare Nostrum, tra febbraio e maggio 2014. Nonostante chiedano asilo, sono portati nel Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria, Roma, con in mano un provvedimento di “respingimento differito“, “un istituto della cui costituzionalità è lecito dubitare”, scrivono i legali. Lo si utilizza per chi non è stato possibile rimandare indietro direttamente dalla frontiera. Nel frattempo parte la richiesta di asilo dei richiedenti (uno dei quali minorenne), che però da dentro il Cie appare strumentale ad evitare il respingimento. In questo frangente la Commissione territoriale di Roma, l’organo ministeriale preposto alla valutazione delle richieste, è più orientata al diniego. Tanto più se chi richiede l’asilo non è somalo, eritreo o siriano: chi proviene da altri Paesi fatica a vedersi riconosciuto l’effettivo pericolo di vita in caso di rientro in patria. Un’altra delle storture del sistema d’accoglienza. La causa è pendente per alcuni, mentre il minorenne è riuscito a vedersi riconoscere una protezione umanitaria ed ora si trova in una comunità protetta.
Proprio i minori non accompagnati rappresentano il buco nero dell’accoglienza. Lo scorso anno il ministero del Lavoro ha speso 14,8 milioni di euro, a cui si aggiungono le spese sostenute dai Comuni. Nel 2014 su 14.203 arrivi censiti, 3.707 minori sono scomparsi, denuncia Save the children. “Il rischio che si ripresenti una situazione simile esiste ancora. I posti a disposizione non sono sufficienti”, spiega Federica Giannotta, Responsabile Advocacy e Programmi Italia di Terre des Hommes. Giannotta è in Sicilia per incontrare il prefetto di Ragusa proprio con l’obiettivo di valutare la situazione di rischio dei minori non accompagnati. L’ong è tornata in Sicilia orientale con il progetto Faro con il quale fa assistenza psicologica ai minori non accompagnati giunti nei centri di prima accoglienza siciliani. Ora appunto va valutata la tenuta del sistema. In Sicilia al momento vigono due sistemi, uno nazionale e uno regionale per l’accoglienza. Il primo ha realizzato in tutta Italia delle nuove strutture, i cosiddetti hub, centri di transito da cui i profughi passano per raggiungere strutture d’accoglienza più piccoli. Il secondo, solo siciliano, ha permesso l’apertura di 50 posti per i minori soli. “Sulla carta è un’accoglienza qualificata, con psicologo ed educatore, ma bisogna vedere cosa si potrà realizzare nel concreto”, aggiunge.
Anche per i fortunati entrati in un centro Sprar, infatti, spesso le condizioni di vita sono molto difficili. A Roma, il centro Asta di via Rebibbia 18 ha dovuto chiudere per mancanza di acqua calda e del riscaldamento. A marzo i profughi hanno scritto una lettera indirizzata alle più alte autorità dello Stato per denunciare. Ora saranno spostati fuori Roma, alcuni fuori regione: un trasferimento difficile da gestire. E guardando chi controllava il centro si scopre un nome ormai noto alle cronache: Eriches29, il consorzio di cooperative nelle mani di Salvatore Buzzi e del sistema di Mafia Capitale. “Di situazioni di questo genere Roma è piena – spiega Lucia Gennari, responsabile del Centro operativo per per il diritto d’asilo -. Alcuni di questi centri sono stati prima accreditati con l’emergenza Nord Africa del 2011 e poi inseriti nel progetto Sprar”. Nei Cara, i Centro di accoglienza per richiedenti asilo, la musica non cambia. Le condizioni di accoglienza sono sempre più difficili. Nonostante i tempi di permanenza previsti nelle strutture sono di massimo sei mesi, alcuni ospiti sono rimasti anche 10 o 11 mesi gli anni passati. “Nessuno li mandava via perché i richiedenti asilo non sono mai stati tanti”, commenta l’avvocato Fachile. Ma ora la disponibilità di richiedenti è più che raddoppiata rispetto allo scorso anno (toccando quota 64.600). Questo ha sì accelerato le uscite, ma solo per la maggiore disponibilità di “clienti” e non perché i progetti d’integrazione vanno a buon fine. Chi è allontanato spesso è costretto a vivere in strada.