I sacrosanti sforzi degli economisti nell’interpretare con i “numeri” le difficoltà della Grecia e dell’intera Eurozona trova un limite nella natura essenzialmente politica della crisi, e nell’impatto che un dato sistema di regole esplica nelle dinamiche economiche. Il Fmi e la Troika ne sono un esempio lampante. La legittimazione di tali organizzazioni nel panorama internazionale non è certo frutto di una teoria economica, quanto piuttosto di un compromesso politico sancito “a norma di legge”, che esprime i rapporti di forza fra singole nazioni e fra capitale e lavoro in una dimensione sempre più globale.
L’economia applicata alla realtà politica, legislativa e sociale non è, insomma, una scienza “indipendente”, e l’avere in qualche modo ridotto il dibattito pubblico ad un problema sostanzialmente “economico” – dove la fonte di ogni verità deve necessariamente rintracciarsi in grafici ed equazioni – ha finito per deresponsabilizzare quella classe dirigente che ha scelto scientemente di attuare piani di salvataggio degli interessi finanziari privati a spese della collettività e della democrazia, senza mettere minimamente in discussione quel processo di globalizzazione finanziaria ed economica che è all’origine delle profonde e sempre più estese crisi.
E’ sufficiente ricordare l’evoluzione del Fmi per comprendere il delicato e talora impercettibile rapporto tra obiettivi politici, diritto ed economia. L’istituzione del Fondo è stata decisa nel ’44 con i cd. accordi di Bretton Woods, per far fronte alla ricostruzione post-bellica mediante la creazione di un ordine (giuridico) sovranazionale finalizzato principalmente a promuovere la cooperazione fra Stati in materia monetaria al fine di garantire una certa stabilità anche negli scambi commerciali.
Negli anni ’70 il Fmi, pur mantenendo la sua vocazione originaria, modifica le proprie competenze, ed in special modo per quanto riguarda il sostegno alla bilancia dei pagamenti viene meno il principio della parità di trattamento fra Stati nell’accesso alle risorse del Fondo per far fronte, in presenza di saldi negativi delle partite correnti, alle pressioni speculative dei mercati. La diversità di trattamento si è manifestata sia con criteri differenti di erogazione degli aiuti finanziari, sia con l’imposizione delle condizionalità (“riforme” o “politiche di stabilizzazione”) come contropartita dei prestiti concessi ai paesi in difficoltà. Gli anni ’80 segnano la fase di consolidamento delle politiche di stabilizzazione sul modello “unico” formulato dal Fondo per reagire alle crisi. Si tratta delle cd. politiche neoliberiste basate sullo smantellamento dello Stato sociale, sulla drastica riduzione della spesa pubblica, sul rigore fiscale, su ingenti piani di privatizzazioni, ecc. Tali “ricette” sono state applicate nei paesi dell’Est e del Sud del mondo travolti dalla “crisi del debito” iniziata nell’82, con dei precedenti significativi anche in Europa e negli Usa. In Inghilterra, ad esempio, il governo laburista che salì al potere nel ’76 aveva messo da parte le politiche espansive anche perché il Fmi aveva espressamente richiesto l’abbandono del Welfare State come condizione di accesso al prestito. Lo scopo è sostanzialmente quello di consentire, al verificarsi di una crisi finanziaria, il recupero dei crediti maturati dal sistema bancario mediante una sorta di clausola di “salvaguardia politica”, nel senso che il rientro dei capitali viene garantito, attraverso i negoziati con il Fmi, a spese dello Stato in difficoltà, e caricato dunque sui cittadini, ai quali vengono imposti sacrifici a colpi di austerità. A pensarci bene, infatti, la “stabilità” cui si riferiscono le politiche del Fondo non attengono a quella interna dei singoli paesi, bensì al sistema finanziario internazionale nel suo complesso. Una volta “salvati”, i capitali non soltanto sono liberi di cercare altre vie di sbocco – in un contesto globalizzato astutamente (de)regolamentato – ma hanno rafforzato il proprio potere politico sancito, negli accordi internazionali, rispetto a quello degli Stati, costretti a modellare le proprie leggi in base alle richieste pervenute dall’alto (“ce lo chiedono i mercati”). Ed è così che la lotta fra capitale e Stati – ovvero fra Costituzioni nazionali e trattati internazionali – interseca la lotta di classe fra capitale e lavoro che opera sul piano della legislazione interna. L’Italia ne è un chiaro esempio: l’indebolimento dei diritti dei lavoratori in materia di licenziamenti – prima con la riforma “Fornero” e poi con il Jobs Act –, è stato inserito fra le richieste dei mercati (poi Troika) nella lettera inviata dalla Bce all’ultimo governo Berlusconi (“revisione delle regole sui licenziamenti”).
La Troika (oggi Mes- Meccanismo Europeo di Stabilità), come discusso in altre occasioni, non è altro che un “Fmi europeo”, e pertanto non c’era da aspettarsi nulla di diverso dall’aumento vertiginoso del debito pubblico dei singoli paesi “commissariati”, dalle politiche di austerità, dall’aumento della disoccupazione, dalla disintegrazione del diritto del lavoro, e da tutto ciò che è necessario per garantire la “stabilità” dei mercati sul “modello” già collaudato dal Fondo. Il trattato con cui la Troika si è strutturata politicamente viene infatti definito Mes, attraverso cui il debito privato delle banche è stato commutato in debito pubblico degli Stati. Non è un caso che il debito pubblico sia aumentato in tutti i paesi in cui è intervenuta l’organizzazione. Era già tutto scritto nei nuovi trattati e accordi internazionali.
Gli studi puramente economici non sono in grado di spiegare, da soli, le complesse ingenerie istituzionali che danno forma alla politica economica e alla lotta di classe. Spesso l’analisi storico-giuridica riesce ad anticipare ciò che le rappresentazioni grafiche raccontano a fatti compiuti.
La crisi greca potrebbe essere una grande opportunità in tal senso. La preziosa ricerca degli economisti – come quello recentemente pubblicato da Gennaro Zezza ed altri colleghi per il Levy Economics Institute – deve essere integrata con pareri giuridici che possano spiegare qual è l’influenza che il capitale, mediante le regole contenute nei trattati internazionali, potrebbe continuare ad esercitare contro la povera Grecia (e conseguentemente contro gli altri paesi europei) nei casi in cui trovasse concreta attuazione uno degli scenari “d’uscita” ipotizzati. Atene rischia di restare nella morsa della Troika anche senza euro, anzi è molto probabile che ciò accada, visto che il sostegno finanziario esterno di cui il governo ellenico avrebbe bisogno dovrebbe arrivare proprio da quel “capitale” che oggi esercita quelle pressioni politiche che costringono uno Stato ad accettare le “riforme”.