Era il simbolo della Resistenza di Livorno, perseguitato per anni dalla polizia fascista. Nel carcere dei Domenicani, nella sua città, aveva conosciuto Pertini. Lascia, tra gli altri, la moglie Osmana di cui si era innamorato durante le riunioni del Cln. Insieme, fino ad alcuni anni fa, hanno girato le scuole per raccontare la lotta per la libertà di 70 anni fa
Non si stancava di ripetere: “Finché ci sono, partecipo. Do il mio contributo, per quanto posso. Ma ora tocca a voi”. Sorrideva con gli occhi piccolini raccontando per la trecentesima volta di quando lo arrestarono i fascisti e lo portarono ai domeni’ani, l’ex convento di frati diventato carcere di Livorno che fu anche di Sandro Pertini, sulla canna della bicicletta. Di nome si chiamava Garibaldo perché così si chiamava suo padre, morto 3 mesi prima che lui nascesse, e suo padre si chiamava così perché era nato nel 1863: “La famiglia era repubblicana: essere repubblicani nel 1863 vuol dire essere quelli che oggi vogliono cambiare la società”. Di nome si chiamava Garibaldo e di cognome Benifei. Aveva 103 anni ed era di Livorno, come Elio Toaff: perseguitato politico per anni, sempre in fuga dalla polizia fascista, era il partigiano più vecchio d’Italia. Non vedrà il suo 70esimo 25 aprile perché ha lasciato tutti il giorno prima, oggi. Ha lasciato tutti compresa Osmana. Di anni, la Benetti, anche lei partigiana, ne ha 92 e con Garibaldo prima ha fatto l’Italia e poi una famiglia. Insieme, vecchissimi, hanno continuato a girare le scuole e accompagnare gli studenti nei luoghi in cui i nazisti avevano compiuto le loro bestialità.
Garibaldo è lo stemma dell’antifascismo alla livornese, anche solo nel modo di raccontarla, la Resistenza, mettendo quasi in burletta i fascisti che invece si prendevano così tanto sul serio. E allora, alla festa per i suoi cent’anni, raccontò di uno dei suoi tanti arresti mentre rientrava a casa: “Guarda, dissi ai miei amici, questi vì aspettano me. Difatti uno si avvicinò e mi disse: oh Benifei bisogna che tu venga ‘on noi. E dove? Dice, ai domeni’ani. Ah sì? Allora ‘spettate che mi cambio perché c’avevo i vestiti della festa e in carcere c’erano le cimici. Allora vado su, mi cambio. Ci si incammina per andare al carcere. Per la strada uno mi dice: dé, ma tutta questa strada a piedi. Loro c’avevano le biciclette. Io dissi: dé, io ‘un ce l’ho la bicicletta. Dice: ti si monta sulla canna. E così… sono stato il primo cittadino che va in carcere sulla canna della bicicletta”. E come sogghignava quando ricordava che Costanzo Ciano, lucchese diventato livornese, presidente della Camera dei fasci e consuocero del Duce, era morto dopo una cacciuccata in Borgo Cappuccini. Ciano, che i livornesi avevano ribattezzato Ganascia non solo perché mangiava a tavola, ma perché mangiava anche al tavolo, quello degli affari.
Garibaldo era di Campiglia, vicino a Piombino, e lì viveva con sua madre Maria, ultimo di 12 fratelli. Uno era socialista – Antonio -, un altro era anarchico – Rito -, un terzo – Eros – diventerà comunista e per anni non lo dirà a nessuno dei suoi. Garibaldo è diventato antifascista forse perché gli avevano tolto l’infanzia: aveva 9 anni quando le squadracce gli incendiarono casa, in via Cavour. L’anno dopo le camicie nere fanno irruzione per cercare Antonio e Rito che però erano già scappati a Livorno. I fascisti spaccarono tutto. Mamma Maria, con Garibaldo, le tre sorelle e Eros provarono a riordinare le stanze: “Non passò tutta la mattina che venne un messo comunale con un biglietto da chi era entrato al posto del sindaco (defenestrato, ndr) che diceva che la famiglia Benifei non era gradita e non rispondeva della nostra incolumità”. Avrebbero dovuto lasciare Campiglia entro 4 ore.
Non è solo lo spirito dei fratelli che lo porta sulla strada che diventerà la sua vita. Sono le sue orecchie a funzionare bene, le sue orecchie di garzone di bar. Prima lavora al “Bizzi” di via Solferino, nel quartiere San Marco, luogo di ritrovo di antifascisti, poi al “Bristol” di piazza Cavour nello stesso palazzo della federazione livornese del Partito nazionale fascista. Nel 1931 ha sentito e visto abbastanza per decidersi. Entra nel Pci e il fratello Eros, tornato da Parigi dov’era espatriato, gli chiede di portare materiale di propaganda ai compagni: volantini, manifesti, copie dell’Unità. La clandestinità, il silenzio. Il silenzio anche come arma, come strumento di ribellione. Quando nel 1933 muore il compagno Mario Camici (ammalato dopo un periodo in carcere) Garibaldo insieme ai dirigenti della federazione giovanile del Pci organizza i funerali che diventano un imponente corteo contro il regime, a quell’epoca arrivato al massimo della forza. Ci sono anche molti non comunisti. La polizia fascista capisce che non è aria e decide di non intervenire.
Ma dopo qualche settimana Garibaldo viene arrestato. Sarà la prima volta e non l’ultima. Lo accusano di tentata riorganizzazione del partito, propaganda ed apologia sovversiva e stampa clandestina di manifesti sovversivi. Questura, botte come se non ci fosse speranza di un domani, tribunale speciale, Regina Coeli, carcere dei Domenicani. Qui conosce Sandro Pertini, ma non vedrà più la madre che nel frattempo è morta. L’Ovra non gli staccherà più gli occhi di dosso. Nel 1937, entusiasta per le vittorie dei repubblicani durante la guerra civile in Spagna, tenta di imbarcarsi su un motoscafo a Calambrone (da dov’erano partiti alcuni dei Mille una settantina d’anni prima) per attraversare il Mediterraneo: non lo arrestano solo per un caso. Nel 1939, insieme ad altri dirigenti comunisti, fa stampare 10mila volantini contro la guerra che di lì a poco sarebbe diventata realtà con l’invasione della Polonia da parte della Germania hitleriana. Il regime fascista va subito a cercare lui, Garibaldo, che si occupava del materiale di propaganda. Questura, tribunale speciale, questa volta la pena è di 7 anni. Lo mandano nel carcere di Castelfranco Emilia da dove uscirà solo un mese dopo la caduta di Mussolini, il 26 agosto 1943.
Benifei torna a Livorno e quasi non la riconosce, è massacrata dai bombardamenti alleati, deserta, ma non ancora liberata (bisognerà aspettare il 19 luglio 1944). Entra nel Cln, è una specie di ufficiale di collegamento tra le province della costa. E’ lo stesso settore di Osmana. Si conoscono dentro al Pci. Una volta vanno insieme, in bici, fino a Gabbro, una frazione in collina, con salite non da poco. Alla fine lei è tutta rossa in faccia: “Come sei bellina – gli fa lui – sembri una mela”. Sarà, il loro, il primo matrimonio civile di Livorno nel Dopoguerra, il celebrante è il sindaco comunista e storico Furio Diaz, le fedi sono in acciaio realizzate dagli operai del cantiere navale.
Per tutta la vita Garibaldo e Osmana si completeranno a vicenda: “I caratteri si amalgamano, entrano l’uno nell’altro, la mentalità, il modo di vivere” disse lui in un’intervista. “Quando eravamo giovani noi – aggiunse lei – la vita era difficile e se non avevi certi pensieri concordi i problemi li affrontavi peggio, i due che sono vicini e sono uniti affrontano meglio le difficoltà della vita”. Si regalarono una nuova vita, un nuovo mondo, e lo regalarono ai loro bisnipoti. “La democrazia non è per sempre – avvertì Garibaldo mentre gli davano la Livornina, la massima onorificenza della città – E’ una conquista che va rinnovata, di giorno in giorno. Io sto dedicando questa parte della mia vita a incontrare i giovani nelle scuole di ogni ordine, a parlare di ciò che abbiamo passato. Perché ricordatevelo: non siamo al riparo da tutti i rischi“.