La definizione, che provocò clamore, è del 1991. Ma ora Bollati Boringhieri pubblica lettere, interventi, editoriali dei due intellettuali in un confronto che modificò la percezione di quel periodo della storia italiana
Quella tra il 1943 e il 1945 in Italia fu una guerra civile. La definizione che provocò non poco clamore 25 anni fa, è dello storico antifascista Claudio Pavone, che la coniò in un suo monumentale volume edito nel 1991 da Bollati Boringhieri. Anche se è grazie al volume Sulla Guerra Civile – la Resistenza a due voci, edito sempre da Bollati, e uscito in libreria nel 70esimo anno della Liberazione, che veniamo a conoscenza di come quel concetto che modificò la percezione e la vulgata di un delicatissimo momento della storia italiana, si è costruito grazie ad un ininterrotto confronto tra Pavone e l’amico Norberto Bobbio.
Lo storico romano e il filosofo torinese sono protagonisti di un lungo e dettagliato scambio di lettere che va dal 1955 al 2000 (Bobbio è morto nel gennaio del 2004) recuperato e pubblicato nell’agile volumetto. Alle missive vengono poi anteposti gli interventi più significativi in pubblico, gli editoriali e le riflessioni dei due protagonisti degli studi sul Dopoguerra italiano, che seguono in parallelo la loro corrispondenza privata. E la sorpresa, più o meno evidente, è che quello slittamento di senso di un concetto come “guerra civile”, utilizzato a fini propagandistici negativi dal revisionismo fascista, poi diventato grazie a Pavone un nucleo concettuale “neutro” (“la circostanza che molti neofascisti l’abbiano fatta espressione propria non è motivo di porla al bando”), non derivi da chissà quale ritrovamento e studio documentale, ma che nasca soprattutto dal concomitante accadere degli eventi come il ’68, la violenza delle Brigate Rosse negli anni Settanta, infine la caduta del Muro di Berlino e del comunismo nell’Europa dell’Est.
Sono proprio gli anni Sessanta a ridosso dell’appoggio missino al governo democristiano di Tambroni, a decretare l’inizio di quell’epoca della contestazione giovanile dei nati nel Dopoguerra dove si diceva “la Resistenza è rossa e non è democristiana” o si metteva in discussione lo spirito unitario risorgimentale che ne soggiaceva. “Non ci si deve mostrare impermalositi contro chi ha parlato male di Garibaldi, ma riaprire un discorso che è rimasto troppo a lungo eluso”, scrive Pavone nel ’68. “Analizzare tutte le forze operanti che agirono in Italia dal ’43 al ’45 (…) significa restituire a ciascuna la sua fisionomia anche contraddittoria e la sua eredità. Soltanto così la Resistenza sarà ricondotta alle sue dimensioni reali e drammatiche e potrà essere ancora guardata con interesse dai giovani”.
Ecco allora prendere corpo nel carteggio Bobbio/Pavone quello che poi diventerà il nucleo centrale del saggio del 1991. Nella Resistenza, secondo il paradigma riformulato, furono combattute tre guerre insieme che si sono più volte intersecate: quella “patriottica” di liberazione dall’esercito tedesco invasore; quella “civile” contro la dittatura fascista; quella “di classe” per l’emancipazione sociale. “Non considero ‘guerra civile’ un concetto esaustivo”, scrisse Pavone a Bobbio nel 1987. “Penso invece che esso si combini in modo vario, talvolta nelle stesse persone, con il carattere patriottico (guerra di liberazione) e con il carattere ‘di classe’ che ebbe la lotta”.
“Le prime due guerre con il 25 aprile 1945 uscirono vittoriose, la terza quella rivoluzionaria no”, ricorda Bobbio nel 1990 nel pieno caos post Muro di Berlino paragonando più vicina la prima istanza di guerra al fronte monarchico, la seconda al Partito D’Azione, la terza al Partito Comunista. Le morti provocate dalle Br negli anni Settanta (“per molti Gap e Br apparvero figli della stessa madre”) diventano poi motivo di un’altra riflessione che sarà elemento chiave nello scritto del 1991 di Pavone: “Il dare alla violenza un valore liberatorio in quanto tale, mi sembra che nella Resistenza vi sia stato poco (…) c’è invece un atteggiamento di dura necessità”. “La Resistenza è un evento da tenere caro”, spiega David Bidussi nell’introduzione de Sulla Guerra Civile. “Anche per questo il loro lavoro è un salutare esercizio di rifiuto di uso politico della storia. Svolto con costanza, talora in solitudine, tra molte incomprensioni”.