L’Unione Europea ha contribuito ad alimentare il sistema corruttivo in Italia, erogando fondi senza verificare a dovere che fine facessero. E se chi li riceveva sperperava invece di investire. È quanto sostiene l’associazione Re:Common nel suo dossier Malaffare italiano, denaro europeo, che ilfattoquotidiano.it ha avuto in anteprima. L’investigazione mette in fila i dati ufficiali degli investimenti della Banca europea per gli investimenti (Bei), istituto che concede prestiti a un basso tasso d’interesse per finanziare progetti volti a migliorare le infrastrutture, l’approvvigionamento energetico o la sostenibilità ambientale. È facile provare come l’elargizione non porti progressi alla grande opera. E i costi, invece, schizzano sempre alle stelle. Se è vero che il Rapporto 2014 di Transparency International relega l’Italia al 69esimo posto nel mondo per trasparenza, è lecito porsi la domanda: dove sono scomparsi i soldi. Soprattutto se da novembre 2014 il piano targato Junker per uscire dalla crisi della zona euro prevede 315 miliardi per investimenti pubblico-privati. “Non c’è corruzione che tenga – notano i ricercatori di Re:Common – Le grandi opere si faranno perché si devono fare”.

Per il 2015 il finanziamento all’Italia della Bei è di 10,9 miliardi di euro, a cui si aggiungono 500 milioni provenienti dal Fondo europeo per gli investimenti. In un cimitero di segni meno per i flussi di cassa da Bruxelles a Roma (in particolare nel settore agricoltura), la Bei viaggia in direzione ostinata e contraria: +4% sul 2013. “Dallo scoppio della crisi nel 2008 la Bei ha fatto nuovi prestiti in Italia per 63 miliardi di euro che hanno attivato circa 180 miliardi di euro. Nello stesso periodo sono state finanziate circa 77.000 Pmi, di cui 6.700 nel solo 2014″, dichiarava ai giornalisti il vicepresidente della Bei Dario Scannapieco il 19 gennaio 2015, a bilancio appena chiuso. Sarebbe un’ottima notizia. Se non fosse per quei soldi spesi per non realizzare niente.

IL SISTEMA VENETO
Per primo fu il Passante di Mestre, i 32 chilometri che collegano Dolo e Quarto d’Altino. Il viaggio comincia da qui. Nel 2003 costava 750 milioni di euro, lievitati a 1,34 miliardi quando si è arrivati all’apertura. All’inizio doveva essere realizzata da un consorzio di società (tra cui Impregilo, Mantovani, Cmc e altre aziende note alla magistratura), poi subentra loro la Cav (Concessioni autostradali venete), partecipata di Anas e Regione Veneto. Nel 2011 la Corte dei Conti segnala un aumento dei costi sospetto e un’anomalia nella struttura societaria. Il commissario Silvano Vernizzi è anche amministratore delegato di Veneto Strade e uomo chiave dell’assessorato alle Infrastrutture. Vernizzi è indagato per turbativa d’asta legata ad un altro progetto. Nonostante tutto questo, ricordano i ricercatori di Re:Common, la Bei presta soccorso alla compagnia che sta realizzando il passante con 350 milioni di euro, erogati nel 2013. A gennaio 2014 Re:Common, insieme al comitato cittadino Opzione Zero e alla rete europea Counter Balance, ha scritto all’Olaf, l’ufficio europeo anticorruzione per segnalare le irregolarità.

La Bei insiste sulla sua linea: Scannapieco in un’audizione in commissione Politiche Ue del Senato il 16 aprile ha garantito che il Passante sarà sostenuto con un project bond emesso dalla Bei a partire dall’estate, con la quale la Banca europea garantirà finanziatori stranieri per l’opera. Anas nel passante di Mestre, nota l’associazione, è committente ed esecutore dei lavori, controllore e controllato. E affida i subappalti per la realizzazione dell’opera, tra gli altri, alla Mantovani spa. La dirigenza nel febbraio 2013 è in carcere per associazione a delinquere finalizzata alle false fatture, inchiesta che poi si svilupperà nel caso Mose e coinvolgerà il parlamentare Giancarlo Galan, che dal Consorzio, a quanto è emerso dall’inchiesta, riceveva uno stipendio. La Mantovani fa parte del Consorzio Venezia Nuova, stazione appaltante. Una storia infinita, cominciata nel 1991 e che (forse) si chiuderà nel 2016. “La spesa – ricorda Re:Common – ha raggiunto i 5,49 miliardi di euro. Per completare il tutto serviranno almeno altri 220 milioni di euro, a cui si stima vada aggiunto un altro miliardo e mezzo per la manutenzione ordinaria”. Ovviamente la Bei contribuisce. Con 1,5 miliardi di euro, uno stanziamento mai visto prima.

L’IREN
Tra i maggiori azionisti conta i Comuni di Parma, Torino, Genova e Reggio Emilia. La multiutility Iren spa possiede quote importanti del rigassificatore di Livorno e dell’inceneritore di Parma. Due opere inutili, per Re:Common. “Il privato sente puzza di bruciato, ma il pubblico dà lo stesso il suo sostegno”, sottolineano i ricercatori. La Banca europea per gli investimenti garantisce all’Iren il solito salvagente: 860 milioni di euro. Il bilancio fa acqua da tutte le parti: l’esposizione debitoria della multiutility è di 2,525 miliardi di dollari. Per uscire dal guado, la società si ricapitalizza in borsa, attraverso uno strumento chiamato dividend lending e per i dividendi agli azionisti si affida ai rabbocchi di istituzioni amiche, come la Bei. Tutto a posto? Non proprio. Il debito è stato ridotto solo di 30 milioni e nel contempo la magistratura di Parma (era il 2013) accusa Luigi Giuseppe Villani, vicepresidente di Iren e di Iren Mercato, e l’ex sindaco di Parma Pietro Vignali di essersi appropriati di fondi del Comune di Parma, utilizzandoli per spese elettorali e per effettuare assunzioni pilotate nelle strutture pubbliche. Con i soldi dell’Iren. Anche la Commissione europea nel 2010 ha aperto un’indagine per vederci chiaro, sulla base di un esposto rivolto alla stessa e all’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici, ora in corso di assorbimento nell’Autorità nazionale anticorruzione. I costi dell’impianto sarebbero 180 milioni nelle stime del progetto, e 265 milioni di euro nella richiesta alla Bei. Perché? A Livorno, invece, in questi anni non si è mosso nulla: il rigassificatore costruito con i fondi Bei giace inutilizzato in mezzo al mare.

LA SALERNO-REGGIO CALABRIA
La Bei ha immesso denaro anche nella madre di tutte le opere incompiute italiane, i 440 chilometri della Salerno-Reggio Calabria. I lavori cominciarono nel 1964, la data d’inaugurazione dovrebbe essere il 2018: 54 anni dopo. E l’Europa paga da tempo immemore: la Bei 530 miliardi di lire nel 1998, Bruxelles con fondi strutturali da 400 milioni di euro. Ma ancora l’autostrada mangia-fondi non è sazia. Servono altri 2,9 miliardi di euro e 1,1 sarà di provenienza Bei con il Piano Juncker. Finiranno nelle tasche di qualche azienda in odor di mafia? Persino l’ufficio anticorruzione europeo, l’Olaf, nel 2011 ha dimostrato un’irregolarità nella gestione dei fondi e ha chiesto alla Regione Calabria di restituire 381,9 milioni di euro, ovvero i fondi attribuiti alla regione Calabria tra il 1994 e il 2006 per un’autostrada mai terminata. La ‘ndrangheta quei soldi li ha già incassati: lo sostengono le inchieste Tamburo (2002-2013), Arca (2007) e Cosa Mia (2010). A mettere le mani sull’autostrada, le cosche Gallico-Morgante-Sgrò-Sciglitano e Bruzzise-Parrello. Al momento sono state emanate 109 informative interdittive, di cui 62 contrattualizzate. Chi è il general contractor dell’appalto? Un nome noto: Impregilo. La stazione appaltante è Anas.

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