Ieri sera RaiTre – dalle h 21.11 circa alle 23.51 – ha compiuto un tentativo “culturale” (“Io leggo perché”, preceduto da un hashtag). Si trattava, in sostanza, di celebrare la lettura attraverso il tramite libro, l’oggetto che tiene insieme le pagine e e che si muove insieme con il lettore. Il libro è anche l’oggetto comprando il quale noi retribuiamo scrittori, stampatori ed editori, come avveniva un tempo per la musica attraverso i dischi.
Una merce, insomma, ma di tipo particolare perché il contenuto “mentale” la mette in diretta comunicazione col nostro mondo dei concetti. Merce fina, insomma, fatta sì di carta o kindle, ma anche della shakespeariana materia di cui son fatti i sogni e i disegni di chiunque. Materia fina, ma di grande forza gravitazionale, specie quando ci sono di mezzo le “storie”, come nei romanzi più o meno gialli e con più o meno sfumature.
Insomma, è il contenuto che ci attrae, mentre verso il contenitore proviamo tutt’al più quel traslato affetto che nei casi più spinti, come quello dei bibliofili, sfocia nel feticismo degli adoratori di reliquie (vedi i guai in cui si sarebbe cacciato Dell’Utri per possedere libri rari in quantità).
Riguardo al rapporto con il pubblico il risultato è stato alquanto disastroso. Non tanto per l’esiguità dello share medio (2,73%) e degli spettatori medi (668.000), quanto per la bassa permanenza media (appena un decimo della durata del programma) a causa del grande numero di quelli (5.878 mln) che appena capita l’aria che tirava sono rimbalzati verso altri canali o in direzione del romanzetto da comodino. Salvo alcuni ristretti settori, molto “urbani”, del pubblico femminile che hanno prestato più attenzione al programma con share del 5%.
Al di là della questione di fondo, e cioè se abbia senso usare una rete generalista (ma anche di target stretto) per spedire cartoline a un club di affezionati, ci sarebbe da discutere sul perché del risultato regolarmente disastroso di tutte le trasmissioni che parlano dell’industria dei media anziché, semplicemente, mostrarne i prodotti. E non ci riferiamo a cose come TV Talk, che giocano sul rapporto fra tv e pubblico, e quindi offrono al pubblico un’occasione per capire se stesso, ma alle trasmissioni che celebrano mondi e filiere industriali. Non ricordiamo, ad esempio, una sola serata-premi per i protagonisti di questo o quel settore mediatico che sia mai riuscita a non annoiare, per quanto la si inzeppasse di attrazioni varie.
La nostra ipotesi è che il pubblico, almeno quello italiano, detesti, o tutt’al più a malapena sopporti, le “celebrazioni”, sempre e comunque.
Tanto per mettere sull’allarme chi, stimolato da frasi estemporanee attorno alla Riforma Rai, stesse già pensando di portarsi avanti col lavoro, ma senza sapere bene in cosa può consistere. Come chi pensasse lavorare a caldo Pinocchio di legno mentre in realtà si affaccenda col marmo da lapide.